
Partiamo da un presupposto: la serialità non è un male per il cinema. Essa permette storie dall’ampio respiro e, allo stesso tempo, rappresenta una buona sicurezza per i produttori. Riproponendo un format già testato, nella forma di sequel, si può andare a intercettare un pubblico ben definito, limitando i rischi produttivi.
Eppure all’inizio di Pacific Rim – La rivolta, quando i primi minuti vengono dedicati al cosiddetto “previously”, un riassunto delle puntate precedenti, risulta inevitabile pensare che si stia perdendo la rotta. Un inizio non molto accattivante fa perdere sin da subito il gusto, tipicamente cinematografico, di una storia chiusa in due ore di esperienza in sala. A questo si aggiunge il fatto che la possibile trama per un terzo capitolo, ventilata sui titoli di coda è, sulla carta, molto più originale di quella sviluppata nel film stesso. Come dire: viene riservato il meglio in prospettiva di un nuovo episodio.
Il seguito di Pacific Rim, diretto da Steven DeKnight, ha poche ambizioni e l’involontario merito di fare rivalutare (ancora più) in positivo, per contrasto, il primo film. L’opera di Del Toro, tutto sommato ben accolta nel 2013, si era però sedimentata nella memoria collettiva come niente di più che un buon guilty pleasure: una fantasia di un regista bambino materializzata su grande schermo. Il cambio in cabina di comando, a fronte di una trama estremamente simile e situazioni tutt’altro che originali, permette il piacevole gioco di accostamento tra le due visioni. Chi non è mai stato attratto dall’idea di vedere due registi all’opera su una stessa sceneggiatura, per potere cogliere la differenza di sensibilità? Con la dovuta cautela, Pacific Rim 2 permette questo tipo di confronto. La conclusione? Pacific Rim era tutt’altro che un piacere “colpevole”. Era un blockbuster d’autore, un tripudio colorato sotto il controllo di una solida regia.
