LA CASA DI JACK, nella selva oscura del male – Recensione del film di Lars von Trier

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la casa di jack
Matt Dillon in La casa di Jack (2018)
the house that jack built
Matt Dillon in un’immagine di La casa di Jack
Se qualcuno dopo gli ultimi turbolenti anni si aspettava da parte di Lars von Trier un ritorno al cinema in punta di piedi si è sbagliato di grosso. Non sono bastati né il marchio di “persona non gradita” al Festival di Cannes 2011 né le polemiche suscitate dallo scabroso Nymphomaniac (2013) a placare l’energia dirompente di uno degli autori più controversi e ispirati dell’ultimo trentennio.
La casa di Jack (The House That Jack Built) mostra allo spettatore in cinque episodi altrettanti omicidi (definiti “incidenti”), compiuti da un serial killer psicopatico, interpretato da Matt Dillon, nell’America degli anni ’70 e confessati al Virgilio dantesco in persona (Bruno Ganz).
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Matt Dillon in un’immagine di La casa di Jack
Come suo solito, il fondatore di Dogma 95 vola altissimo: da William Blake a Dante, dal Romanticismo alla Pop Art, da Glenn Gould a David Bowie, lo spettatore viene condotto in un viaggio infernale (tanto metaforico quanto concreto), nella selva oscura del male, attraverso tutta la storia della cultura e dell’arte. È sempre più raro assistere a film che riescono in modo così efficace a penetrare negli abissi e a comunicare con tanta glaciale adeguatezza la mente di un assassino senza scrupoli. Benché il topos dell’omicidio come forma d’arte non sia certo una novità, la ferrea logica con cui il protagonista argomenta le proprie ragioni non può che destabilizzare profondamente. La valenza suprema del risultato artistico, indipendente da qualsivoglia implicazione etica o morale, sfocia in una sorta di apologia della crudeltà e, dal punto di vista visivo, si traduce nell’estetica della sofferenza più pronunciata, decisa, marcata.
Durezza delle immagini, verbosità, narrazione episodica e costante volontà di sottrarre lo spettatore dalla comfort zone in cui troppo spesso si adagia: sono queste le peculiarità che si inseriscono agevolmente nella ricerca che von Trier porta avanti fin dagli esordi. Stupisce, invece, la dimensione pulp che aleggia in lunghi tratti della pellicola: musiche rock, dialoghi “tarantiniani”, ralenti e high speed, situazioni grottesche di black humour mitigano in un certo senso i toni apocalittici e ossessivi dell’opera.

The house that jack built

Il cinema corrosivo, provocatorio e apodittico di Lars von Trier raggiunge lo zenit con La casa di Jack, un saggio sull’arte che riflette sullo stato dell’arte stessa, tra etica e metafisica, e sul fine ultimo, e lapidario, della creazione. Architetto e ingegnere dei suoi progetti, il graffiante istrione danese sale sulla “barca di Dante” (ritratta nel celebre quadro di Delacroix) e realizza un affresco “romantico” sul narcisismo e la perdizione, una litografia scarlatta dal fascino estremo e disturbante. Immagini e parole dialogano in totale distensione, ma con sottile distacco, senza mai oltrepassare il labile confine della confidenza, dell’intimità, della confessione.
La casa di Jack rappresenta la discesa agli inferi di un autore imprevedibile che, a distanza di anni, non finisce mai di sorprendere: è il punto di non ritorno del cinema di Lars von Trier. Immenso e, forse, irraggiungibile.
“Hit the Road Jack and don’t you come back no more”.
Marco Tomasoni & Andrea Rurali