Io capitano di Matteo Garrone racconta di un viaggio nell’inferno del deserto con grande realismo e poesia. Un cinema di altissimo livello. In concorso a Venezia 80.
Sentire il bisogno di partire. Cercare di raggiungere quel sogno raccontato dai film e dalla televisione. Cambiare la propria vita. Erano queste le forze che spingevano il protagonista di Reality a desiderare di partecipare a una trasmissione, sono le stesse anche per Seydou e Moussa i due ragazzi che partono per l’Europa nell’ultimo film di Matteo Garrone. Io capitano si apre con una festa con balli e sabar. Si parte da un Senegal coloratissimo, povero eppure pieno di sorrisi. Eppure i due cugini sognano l’Italia come una terra promessa da raggiungere per diventare famosi, vivere bene e aiutare la propria famiglia. Decidono pertanto, inconsapevoli di quello che li attende, di affrontare il deserto, oltrepassare la Libia e, in qualche modo, giungere sulle coste della Sicilia.
Com’è fatto Io capitano?
Non uscirà in sala doppiato, Io capitano. Una scelta coraggiosa che è molto semplice capire. Sono troppe le lingue parlate per doppiarne una: wolof, francese, inglese e italiano. Quante volte abbiamo visto dei film on the road in cui si parla sempre la stessa lingua? Questa è già la prima decisione in regia che cambia tutto e lo rende una produzione speciale nel panorama italiano.
Seydou Sarr e Moustapha Fall, i due attori protagonisti, sono due scoperte. Come spesso capita sui set di Matteo Garrone si lavora tanto di autenticità, con una sceneggiatura malleabile e scoprendo le sorti dei personaggi man mano che si entra nella lavorazione. L’effetto è di una grande verità (che non significa per forza realismo, anzi qui ci sono un paio di digressioni surreali). È straordinaria la capacità di Garrone nel gestire dei set incredibilmente complessi, pieni di comparse che si muovono intorno alla cinepresa restituendo l’impressione di una città viva, di un deserto enorme, di una barca stracolma.
Com’è Io capitano?
Io capitano è molto diverso da quello che ci si potrebbe aspettare da un film di denuncia che prende in esame l’immigrazione, le prigioni libiche e le morti in mare. È così perché Garrone rifiuta categoricamente qualsiasi retorica. Non vuole convincere lo spettatore di una tesi. Preferisce piuttosto imbastire un racconto formazione in cui il protagonista è il viaggio stesso. Seydou e Moussa cambiano lungo le tappe di questo film che struttura rigidamente le sequenze come dei piccoli capitoli. I vari momenti sono infatti scanditi e piuttosto isolati l’uno dall’altro. È una sensazione stran, che si spiega notando l’insistito uso delle dissolvenze. Garrone filma un sogno, o meglio un ricordo. Può permettersi così di non mostrare cose essenziali alla trama se il protagonista non le ha vissute (come un parto sullo scafo), senza digressioni, sempre addosso al suo bambino-adulto costretto a diventare grande anzitempo.
Generalmente questo tipo di opere brillano per la capacità di indignare, generando così una reazione politica e civile. Io capitano invece dà la priorità all’universalità del viaggio, alla comprensione delle emozioni che lo generano e delle paure che porta con sé. Un’Odissea moderna per trovare una nuova casa trova negli occhi dei viaggiatori i suoi confini.
Bellissima ed esemplificativa la sequenza in cui in mare si vedono delle luci. È una enorme piattaforma petrolifera. I viaggiatori non ne hanno mai vista una e si chiedono, fino a che non sono vicini tanto da sfiorarla, se quella sia realmente un porto italiano.
È bravissimo Garrone a stare sempre sul confine tra il documentaristico e il cinema del fantastico. Quando la barriera che segna il confine tra i due generi si rompe, Io capitano mette in scena dei momenti di assoluta bellezza, da togliere il fiato.
Quindi Io capitano è un capolavoro?
Non lo è, e non è un problema che non lo sia. Nel suo complesso il film fatica a trovare quella piccola spinta in più che gli serviva per pareggiare i migliori film del regista (L’imbalsamatore, Gomorra, Reality). Gli manca un po’ di compattezza nei vari momenti che mette in sequenza, perde ogni tanto il senso di urgenza e fatica a tenere insieme tutte le linee di trama che inizia. In realtà il sospetto è che scelga deliberatamente di tenerle in sospeso (come un uomo che aiuta Seydou e che meritava più spazio nel film). In fondo, infatti, nel vero viaggio la gente si trova, si tiene e si perde.
Sono imperfezioni che non impediscono però di amare tantissimo questa visione così chiara, questo cinema così ben fatto!
Io capitano è per tutti?
Tutti dovrebbero vedere Io capitano, sebbene il concetto di film “necessario” esista solo nella teoria. È adatto alle scuole quanto al pubblico più maturo. Non risparmia alcuni momenti di grande forza emotiva e di violenza visiva. Il fatto di non indugiare sul superfluo, di non compiacersi del dolore, fa capire il perché della scelta: non si può rispettare le storie di queste vite senza ammettere che, per un sogno chiamato futuro, sono stati in grado di attraversare l’inferno.
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