Il diritto di contare racconta la storia, a tratti vera, di tre figure nascoste (da qui il titolo originale Hidden Figures) all’interno del team di ricerca della NASA. Sono tre donne di colore: due matematiche, Katherine Johnson e Dorothy Vaughan, e un’ingegnere, Mary Jackson. Ognuna di loro ha un ruolo chiave per la preparazione di una delle missioni più importanti mai lanciate nello spazio: fare compiere ad un uomo un’orbita completa intorno alla terra.
Il lungometraggio conserva tutto il fascino, tipicamente statunitense, della parabola di sconfitta e redenzione. La verità dei fatti narrati viene usata solamente come un pretesto per attualizzare le metafore e i parallelismi con il mondo attuale. In questo senso la pellicola diretta da Theodore Melfi appartiene ad un canone classico e intramontabile: le velleità autoriali, insieme ai rischi, vengono limate in funzione di un intrattenimento che pretenda di essere impegnato pur mantenendosi scorrevole. È un cinema popolare, quello de Il Diritto di contare.
Analizzando attentamente non vi è una grande differenza tra questo genere di film e il filone supereroistico. Al centro troviamo sempre persone straordinarie, che compiono gesta incredibili e cambiano, nel loro piccolo, il destino del pianeta. Al centro, a differenza dei blockbuster costosi, non ci sono le emozioni ma i sentimenti. La componente emotiva è infatti una parte fondamentale de Il diritto di contare. Attraverso il coinvolgimento empatico la regia indirizza i pensieri dello spettatore e il sentimento di rivalsa che permea il trionfo delle protagoniste, fa sentire più sollevati. Chi guarda non può schierarsi dalla parte degli antagonisti, senza sentirsi insensibile e pieno di pregiudizi. A qualsiasi ceto sociale, orientamento politico, credo religioso si appartenga non si può non aderire incondizionatamente alle battaglie delle protagoniste.
Il diritto di contare è indifendibile dalle accuse di faziosità, di essere unidirezionale, di eccessiva semplificazione della realtà. Eppure, allo stesso tempo, non può che essere apprezzato e amato per la sua capacità di ribadire concetti come l’uguaglianza di genere e di “razza”. Per la forza con cui rinnova il sentimento pacifista e per l’equilibrio con cui gioca le sue carte, il film sembra fortunatamente non cercare mai la commozione, salvo poi trovarla su un finale molto sincero.
I personaggi sono sviluppati “a tesi”, in buoni e cattivi, bianchi e neri (in entrambi i sensi in cui si può intendere il termine), ma riescono a risultare credibili. Il diritto di contare non cade nella tentazione di mostrare i personaggi che lottano per avere un lavoro. Il fulcro è la fatica nel vincere la missione, spazzando via i pregiudizi. La novità della lettura di Theodore Melfi sul tema razziale sta infatti nel renderlo un “rumore di fondo”. Il razzismo è un ostacolo al progresso, un freno alla civiltà. È facile, per molti commentatori sui social network, citare DonaldTrump, i movimenti estremisti, il timore dei flussi migratori, per parlare di questa pellicola. Il senso profondo dell’opera sta nel non confinare l’intolleranza ad una persona o ad un periodo storico, ma di evidenziarla come costante di inciviltà in ogni era ed epoca. Hidden Figures, Il diritto di contare, può dirsi quindi un film pienamente riuscito, che applica il tono fiabesco per dipingere un affascinante contrasto tra il progresso tecnologico e l’immobilità della civiltà.
Consigliato a: le famiglie che vogliono passare delle piacevoli ore al cinema, riattivando il fervore civile.