
“Come pensi che mi senta a farmi pagare da mio figlio? Cosa credi che si provi?”
“Non saresti qui se non ti pagassi.”
Honey Boy è per molti versi un film necessario. Definitiva catarsi per il suo ideatore e principale interprete, la pellicola si presenta come un viaggio a ritroso compiuto da Shia LaBeouf per sviscerare il rapporto con suo padre Jeffrey, una vera e propria autopsicanalisi che vede addirittura lo stesso attore vestire i panni di quella figura genitoriale che, mai come nessun’altro, ha segnato il suo processo di maturazione come uomo e il suo modo di porsi nei confronti dello star system hollywoodiano.
A rischio di essere accostato a tutte le prove di dichiarata megalomania che contraddistinguono la recente vita di LaBeouf, Honey Boy ci appare invece come uno spontaneo e trasparente esperimento a livello subcoscienziale, il forte bisogno di lasciare andare (o abbracciare?) determinati sentimenti che hanno gravato sulla star per fin troppo tempo.
La decisione di affidare la regia alla filmmaker statunitense di origini israeliane Alma Har’el (conosciuta soprattutto nell’ambito dei videoclip musicali) dona all’intera opera quella giusta percentuale di tocco femminile, caldo e materno, in grado di trasfigurare i suoi due protagonisti nei personaggi di una fiaba della buona notte.
Una fiaba che LaBeouf ha bisogno di raccontare in primis a sé stesso, per ricordarsi che il passato è passato, che da esso possiamo solo imparare e che il tempo cancella ogni cosa, tranne le persone che sono diventate parte integrante del nostro cuore e della nostra identità, nel bene e nel male.
