Udite udite, è arrivato l’Hell Fest in città! È un parco d’intrattenimenti horror itinerante – benché a spanne sia grande più o meno come l’EXPO – dove chiunque può sollazzarsi facendosi spaventare a morte, fra tunnel degli orrori, attrazioni raccapriccianti, teatrini macabri è una miriade di figuranti travestiti da maniaci omicida. E se, confuso fra questi, ci sia davvero un brutale assassino? Ecco, dunque, Hell Fest.
Partorito dal montatore dell’esausta saga di Paranormal Activity – e di recente anche di Scappa: Get Out– Gregory Plotkin, e prodotto dall’executive di The Walking Dead (e ideatrice dei characters di Terminator, nonché sceneggiatrice del capostipite) Gale Anne Hurd, il film paga il suo ingente debito verso gli slasher degli anni d’oro riportandone in auge i fasti, ma con una certa impersonalità, e prendendo in prestito una bella ambientazione scintillante dall’atmosferico The Funhouse del compianto Tobe Hooper.
Ma Plotkin non è Hooper (che pure di passi falsi ne ha forse compiuti più di quelli giusti), e il suo Hell Fest non si scrolla di dosso un certo peso derivativo, un’ombra tutt’altro che sinistra. Ma con Hooper – il cui nome qui è fuori luogo, ma torna utile – un punto in contatto c’è: la ricerca di un eccesso. Il film ingrana lentamente la marcia quando cominciano gli omicidi (quelli che interessano la trama, tralasciando un breve preambolo) che poi tanto brutali non sono. Non perché non siano violenti, ma perché lo slasher già in tempi non sospetti puntava alla violenza parossistica, cercando ogni volta di superarsi. In questa continua rincorsa è difficile oltrepassare il limite nella violenza visiva o senza sconfinare nel già visto o, peggio, lanciandosi in una esaltazione che ha dell’abietto e del pornografico.
Proprio a questo proposito, qualcosa tiene sempre ancorato il film a terra: una zavorra che ha il profilo dell’esasperazione. Beninteso, non tanto per quanto riguarda la violenza, come si diceva pocanzi, ma per la “scenografia della morte” alquanto oltraggiosa. Anche questo, certamente, per un horror di questo tipo è un limite, benché superficiale. No, l’eccesso sta nel contorno, così come accadeva nell’Hooper degli anni ‘80 (Space Vampires, Non aprite quella porta 2): il film di Plotkin è sovraccarico di stimolazioni visive e uditive alla lunga sfiancanti, che nulla aggiungono e nulla tolgono all’impianto generale, se non condizionare negativamente la fruizione. Come si usa dire, «il troppo stroppia». Così le mille luci del parco dell’orrore si mescolano con dialoghi continui e vuoti da adolescenti spensierati, risate, urla, affanni, milioni di parole buttate al vento. E poi, l’intrattenimento del parco: musiche creepy, effettacci sonori, versi mostruosi, altissime luci o penombra tetra. Mai un attimo di silenzio, una sequenza in cui sia l’extra diegetico a “parlare”: e dire che la suspense passerebbe facilmente anche da questa strada, evitando il continuo bombardamento percettivo.
È pur vero che il genere si presta spesso a giocare sopra le righe, anche se forse non tanto lo slasher, da cui pure Hell Fest non si distanzia altrimenti, pre e post “revisione” di Wes Craven: un assassino mascherato, innominato, senza parola; un’occasione di festa e spensieratezza finita in tragedia; una mattanza ingiustificata che ha l’orribile sembianza della ricorrenza. Insomma, la straordinarietà (nel significato, al di fuori dall’ordinario) di un maniaco omicida che pare non avere punti deboli e non conoscere la morte – se non quella che procura – inserita in un contesto di urlante ordinarietà, una manifestazione di piena vita e spensieratezza così plateale da sembrare posticcia: l’adolescenza al suo culmine.
È proprio così, Hell Fest? Sì, almeno fino alla breve sequenza finale, che aggiunge un dettaglio agghiacciante. Se si attesta per vero quando detto sinora, si può dire che il film di Plotkin porti, nelle pagine finali, l’ordinario nello straordinario, ossia una parentesi di vita vera, o almeno verosimile, nel contesto della follia fuori dal comune del gesto omicida. Come dire: questo non è l’incubo di un Jason qualsiasi col suo machete, questa è davvero vita vera. Senza svelare di più, per non rovinare la sorpresa, questa piccola coda è capace di rimettere in discussione la piattezza derivativa del film, donandogli un piano di lettura che sembra interessante, ossia sollevandolo dalla grettezza di uno slasher qualunque di cui, comunque, veste i panni.
Se si vuole – ed è la stessa produttrice a suggerirne la lettura – il film è una sorta di metafora di Internet e dei suoi pericoli, per cui in un mondo digitale un po’ sinistro, di cui non si percepiscono i confini, ma stracolmo di potenziali divertimenti, l’agguato è sempre dietro l’angolo. E il carnefice digitale è sempre un insospettabile agnellino nel mondo reale. Certo, è una chiave risolutiva un po’ tirata per i capelli, e nemmeno tanto nuova (già il recente Obbligo o verità?, fuor di metafora, spinge allo stesso ragionamento nel finale), ma è credibile, e di sicuro giova al giudizio complessivo del film. Che poi sia davvero utile, è tutto un altro discorso.
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