![hell fest recensione](http://www.cineavatar.it/wp-content/uploads/2018/11/hell-fest-2_.jpg)
Udite udite, è arrivato l’Hell Fest in città! È un parco d’intrattenimenti horror itinerante – benché a spanne sia grande più o meno come l’EXPO – dove chiunque può sollazzarsi facendosi spaventare a morte, fra tunnel degli orrori, attrazioni raccapriccianti, teatrini macabri è una miriade di figuranti travestiti da maniaci omicida. E se, confuso fra questi, ci sia davvero un brutale assassino? Ecco, dunque, Hell Fest.
Partorito dal montatore dell’esausta saga di Paranormal Activity – e di recente anche di Scappa: Get Out – Gregory Plotkin, e prodotto dall’executive di The Walking Dead (e ideatrice dei characters di Terminator, nonché sceneggiatrice del capostipite) Gale Anne Hurd, il film paga il suo ingente debito verso gli slasher degli anni d’oro riportandone in auge i fasti, ma con una certa impersonalità, e prendendo in prestito una bella ambientazione scintillante dall’atmosferico The Funhouse del compianto Tobe Hooper.
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Ma Plotkin non è Hooper (che pure di passi falsi ne ha forse compiuti più di quelli giusti), e il suo Hell Fest non si scrolla di dosso un certo peso derivativo, un’ombra tutt’altro che sinistra. Ma con Hooper – il cui nome qui è fuori luogo, ma torna utile – un punto in contatto c’è: la ricerca di un eccesso. Il film ingrana lentamente la marcia quando cominciano gli omicidi (quelli che interessano la trama, tralasciando un breve preambolo) che poi tanto brutali non sono. Non perché non siano violenti, ma perché lo slasher già in tempi non sospetti puntava alla violenza parossistica, cercando ogni volta di superarsi. In questa continua rincorsa è difficile oltrepassare il limite nella violenza visiva o senza sconfinare nel già visto o, peggio, lanciandosi in una esaltazione che ha dell’abietto e del pornografico.
Proprio a questo proposito, qualcosa tiene sempre ancorato il film a terra: una zavorra che ha il profilo dell’esasperazione. Beninteso, non tanto per quanto riguarda la violenza, come si diceva pocanzi, ma per la “scenografia della morte” alquanto oltraggiosa. Anche questo, certamente, per un horror di questo tipo è un limite, benché superficiale. No, l’eccesso sta nel contorno, così come accadeva nell’Hooper degli anni ‘80 (Space Vampires, Non aprite quella porta 2): il film di Plotkin è sovraccarico di stimolazioni visive e uditive alla lunga sfiancanti, che nulla aggiungono e nulla tolgono all’impianto generale, se non condizionare negativamente la fruizione. Come si usa dire, «il troppo stroppia». Così le mille luci del parco dell’orrore si mescolano con dialoghi continui e vuoti da adolescenti spensierati, risate, urla, affanni, milioni di parole buttate al vento. E poi, l’intrattenimento del parco: musiche creepy, effettacci sonori, versi mostruosi, altissime luci o penombra tetra. Mai un attimo di silenzio, una sequenza in cui sia l’extra diegetico a “parlare”: e dire che la suspense passerebbe facilmente anche da questa strada, evitando il continuo bombardamento percettivo.
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