
È difficile parlare di Happy End senza partire dagli ultimi istanti. Perché proprio in quei fotogrammi finali, sgranati in quanto mediati dall’occhio di un cellulare, Michael Haneke trova tutto il suo spirito, vulnerabile e assai crudele, di indagatore dell’umanità.
La sua ultima opera, impossibile da raccontare con giustizia nella trama, è una classica storia di intrecci familiari narrato però con una perizia tale da elevarla sopra la media.
Siamo però ben lontani dalla poesia di Amour, pietra miliare degli ultimi anni di cinema. Nonostante il personaggio di Jean-Louis Trintignant sembri segnare un raccordo con il sofferente Georges, Haneke vira sui toni della commedia amara, rinunciando al realismo in funzione di una teatralità a volte troppo artefatta. Happy End si presenta inizialmente allo spettatore come un film rigoroso, costruito e sceneggiato, ma a lungo andare travolge per la verità dei sentimenti che comunica.
Il cineasta austriaco riesce a trovare i volti giusti per i suoi personaggi. Li ama, e si vede, non tanto negli attori, tutti bravissimi, ma più nella loro forma, nelle rughe e nelle imperfezioni. Le caratteristiche fisionomiche delle persone che popolano il mondo del film sono oggetto di pregiudizi, di attrazione, di sconforto. Le facce sono riprese, seguite, indagate e si fanno, al tempo stesso, strumenti di comunicazione.
