GHOST STORIES, la recensione dell’horror con Martin Freeman

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Andy Nyman Ghost Stories
Andy Nyman in una scena del film Ghost Stories
“Come mai è sempre l’ultima chiave quella che apre tutte le porte?”
Non manca di certo l’ironia in Ghost Stories, adattamento cinematografico dell’omonima pièce teatrale rappresentata nei teatri inglesi per circa due anni a partire dal 2010. Al fianco dell’ironia gradevole e familiare che ci strappa più di un sorriso con un jump scare ben assestato o una fine battuta di quel british humor che tanto apprezziamo, ne troviamo una più amara (familiare anch’essa) e diretta come un pugno sullo stomaco: è l’ironia della vita stessa che accompagna ogni singolo fotogramma di questa pellicola deliziosamente riuscita e che la eleva a mosca bianca dei prodotti horror di più recente interesse.
Non a caso, questa duplice tipologia di umorismo proviene dallo stampo di un gruppo comico ben noto in patria britannica, The League of Gentlemen, dal quale Jeremy Dyson decise momentaneamente di staccarsi per dare vita, insieme all’amico Andy Nyman, a uno spettacolo dal vivo che toccasse “sotto pelle” il pubblico in sala, coinvolgendolo in un esperimento terrorifico senza precedenti che ebbe un immediato successo. Arrivati al 2018, il simpatico duo replica l’operazione sul grande schermo e il risultato è un film che mescola stili e generi, spaventa e diverte, fa evadere e riflettere la mente, infrangendo in rare occasioni la “quarta parete” per lasciarsi andare al gioco insieme ai suoi stessi spettatori.
Come nel Ghost Stories teatrale, la parte del protagonista è affidata allo stesso Nyman che, nel ruolo del docente di psicologia (di origini ebraiche) Phillip Goodman, dipinge un uomo spinto da un forte culto della razionalità a smascherare in diretta televisiva falsi medium e spiritisti di ogni sorta. “La mente vede ciò che vuole vedere” è il suo dogma di ferro. Entrato in contatto con l’anziano guru del mestiere Charles Cameron (Leonard Byrne), sua più grande fonte d’ispirazione e dato per morto fino a quel momento, Goodman si ritrova per le mani tre casi apparentemente irrisolti dai quali dovrà definitivamente rimuovere l’etichetta “paranormale”. Inutile dire che le tre storie, raccontategli da altrettanti individui in una serie di sinistre e misteriose interviste, metteranno a dura prova le sue più strenue convinzioni.
Alex Lawther Ghost Stories
Alex Lawther in una scena del film Ghost Stories
Si parte dal più canonico dei luoghi infestati, un vecchio ospedale psichiatrico abbandonato, dove un ruvido guardiano notturno (Paul Whitehouse) dovrà vedersela con uno spirito inquieto, per poi passare a un episodio in pieno stile Sam Raimi che, forte di una “vis comica” schizzata e sopra le righe, porta il giovane attore Alex Lawther (The End of the F***ing World, Black Mirror) in trionfo come interprete di uno dei personaggi più riusciti dell’intera pellicola. Alle prese con un demone dalle fattezze caprine, il ragazzo rappresenta forse il miglior alter-ego cinematografico del fruitore medio di genere horror. A chiudere lo spaventoso trittico, ci pensa Martin Freeman (Lo Hobbit, Black Panther), nei panni di un uomo d’affari scozzese dal carattere composto, la cui casa viene infestata da un poltergeist, proprio nei giorni in cui sua moglie sta per mettere alla luce il loro primo erede.
Guardare Ghost Stories equivale a scendere i diversi piani sotterranei di un lugubre castello, fino a raggiungere le segrete del nostro subconscio. La paura al servizio dei nostri esorcismi interiori, il terrore come passe-partout dei nostri drammi irrisolti. Il tutto affrontato immersi in un genuino (per quanto spaventoso) intrattenimento, al fianco di altre “cavie” consapevoli e volontarie, presenti con noi in sala. La tradizionale struttura narrativa a matrioska delle pellicole horror inglesi degli anni ’70, vessillo delle celebri antologie della Amicus, fa riecheggiare nella nostra testa ogni singolo passo che muoviamo sui gradini di quella intima oscurità, in direzione di quell’ultima porta, stringendo in mano una chiave che abbiamo sempre posseduto… ma confusa finora all’interno del mazzo.