Recensione dal Bianconiglio Lab de Il potere del cane,
l’ultima fatica di Jane Campion.

Dopo la morte di mio padre non volevo altro che la felicità di mia madre. Che uomo sarei mai se non aiutassi mia madre? Se non la salvassi?

È la voce fuori campo di un timido adolescente che avrebbe molto da raccontare a Freud quella che prende per mano Il potere del cane, ultima fatica di Jane Campion, tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Savage.

Peter si pone dei dubbi circa la propria identità, tra ciò che sembra e ciò che è in realtà: apparentemente fragile e innocuo, non ancora pronto per accettare la sua omosessualità, dimostra poi astuzia e capacità di seduzione. 

I personaggi tra verità e finzione

Come il teatro greco giocava sul contrasto tra apollineo e dionisiaco – la razionalità contro la libertà di essere se stessi – così i protagonisti de Il potere del cane (qui la nostra recensione da Venezia78) vivono una costante tensione tra ciò che sono e potrebbero essere, uniti da una solitudine opprimente che li trasforma in eroi tragici.

Pochi sono i primi piani che inquadrano lo sguardo di Phil, il cowboy rozzo, intelligente, macho e omosessuale, e allo stesso modo la fragile esistenza di Rose è colta nell’incertezza dell’esecuzione della marcia del Radetzki, nei tentativi ripetuti in modo ossessivo. Tra i due sta George, fratello di Phil, gentile e cieco davanti all’evidente alcolismo della moglie Rose.

Lo spazio come architettura teatrale

Le ampie carrellate sviluppate in orizzontale disegnano un universo infinito suddiviso in ambienti esterni e interni: la natura e il ranch, spazi teatrali attraversati dalle entrate e dalle uscite dei suoi protagonisti principali. Lo sguardo abbraccia il campo lunghissimo del paesaggio del Montana, circondato da colline da cui sembra profilarsi la forma di un cane. Ed qui lo spettatore è guidato ad osservare un’architettura interna composta da quadri, cornici, porte, finestre che raccolgono istantanee di attimi vissuti, segni premonitori e oggetti che potrebbero svelare un tragico epilogo.

Il piano, la corda in pelle, il letto sfatto da cui si intravede una bottiglia vuota sono illuminati da un chiaroscuro che proietta un forte senso di angoscia e getta ambiguità anche su coloro a cui sono appartenuti. 

Una narrazione ermetica

Il potere del caneLa sequenza degli eventi apparentemente lineare dona a Il potere del cane un ritmo lento che permette allo spettatore di indugiare su ciò che vede e di porsi delle domande, trasformando il racconto in una narrazione complessa ed enigmatica, dal finale profetico e catartico per chi ha inteso scegliere il punto di vista iniziale del giovane Peter, fedele e istintivo come un cane.

L’occhio della regista si fa potente come un deus ex machina che interviene per dimostrare come la realtà sia nei fatti più oscura e complicata dell’immaginazione.

il potere del cane

Lezioni di piano prima de Il potere del cane

La pellicola fa delle passioni trattenute, dei desideri inespressi, delle esistenze a metà la sua matrice d’espressione esattamente al contrario di quanto è accaduto in una delle precedenti opere di Jane Campion Lezioni di piano: emblematico è il tema appartenente alla colonna sonora The heart asks pleasure first di Michael Nyman che dà voce alla passione della muta protagonista, all’opposto di ciò che succede con il motivetto fischiato e storpiato della marcia ne Il potere del cane che invece mette a tacere i sentimenti di Rose.

La melodia ha la capacità di trasformare i protagonisti di Lezioni di piano, di farli evolvere da una condizione iniziale di staticità emotiva a un fluire di sentimenti e passioni che scorrono liberi persino dai vincoli sociali.

Allo stesso modo la palette della fotografia riflette il cambiamento: i toni freddi e azzurrini della natura selvaggia neozelandese sfumano verso una luce dorata, soffusa che scalda il volto della protagonista, ripreso in primissimi piani nella sua personale evoluzione interiore.

Metafisica della sensualità

Le passioni, trattenute o dichiarate che siano, sono tratteggiate in entrambi i film da una sensualità raffinata che si dispiega nel coinvolgimento dei cinque sensi. Il fazzoletto di Bronco Henry scorre sul corpo bagnato di Phil, come le dita di George attraversano un buco della veste per toccare la pelle di Ada e, allo stesso modo, i protagonisti sbirciano da una fessura o da una finestra. Tutto ciò trasporta lo spettatore verso una dimensione metafilmica, raddoppiando la sua presenza che attraversa lo schermo per entrare nella pellicola.

Ed è questa l’abilità di Jane Campion che compie l’atto dirompente di portare il pubblico all’interno di un contenitore tra realtà e finzione.

Recensione a cura di Valeria Cobianchi