Con The Power of the Dog Jane Campion racconta il dramma della solitudine e dell’ambiguità ai confini del selvaggio West

Salva l’anima dalla spada, salva il cuore dal potere del cane”.

Con questa frase estratta da un salmo della Bibbia è possibile rintracciare il senso dell’operazione messa in scena da Jane Campion. Parole che riemergono dalla voce dell’efebico Peter (Kodi Smit-McPhee) e risuonano nel finale come una sentenza, nel silenzio assordante che avvolge il ranch del Montana in cui il giovane si trasferisce insieme alla madre Rose (Kirsten Dunst) dopo il secondo matrimonio di quest’ultima con il ricco allevatore George Burbank (Jesse Plemons). Peter e Rose dovranno fare i conti con l’ermetico Phil (Benedict Cumberbatch), fratello di George, il “cattivo” (il cane del titolo, appunto) da cui fuggire per tornare a essere liberi.

The Power of the Dog è un dipinto crepuscolare di vite spezzate, ridotte al grido laconico di dolore, divorate dal rancore e sospese nel limbo dell’emarginazione, dell’ambiguità. C’è il dramma di una madre, Rose, rimasta vedova con un figlio di quasi 20 anni; c’è il percorso di formazione del giovane Peter; e infine c’è il tormento di un cowboy, Phil, schiavo della sua mascolinità e incapace di amare.

Storie di emarginazione, solitudine, oppressione, vendetta: tutti temi cari alla regista neozelandese, autentica auteur con una visione profonda e romantica del cinema, con uno stile e una padronanza che l’hanno condotta al successo col magnetico Lezioni di Piano. Ed è proprio da lì che parte The Power of The Dog, sviluppando linee narrative analoghe e coincidenti con il film del 1993, ma senza perdere il contatto col materiale d’origine, l’omonimo romanzo di Thomas Savage.

the power of the dog

Jane Campion preleva le ambientazioni del cinema western, con le sue atmosfere refrattarie e desolate, per depositarle in un film sul tempo e lo spazio, che annienta i personaggi rinchiudendoli nei loro drammi interiori. Scandito a tappe, nella didascalia di un racconto suddiviso in cinque capitoli, il film sposa la via della moderazione, è controllato, sempre attento a mantenere un approccio classico, mite, in linea con i prodotti Netflix.
The Power of the Dog naviga in acque sicure, non arriva a lambire la potenza di I segreti di Brokeback Mountain e non si nasconde nemmeno quando rintraccia le coordinate visive del Cimino di I cancelli del cielo. Ma non si spinge mai oltre la cosmogonia della regista stessa, un cinema rivelatorio fatto di silenzi, immagini poetiche e personaggi complessi.

Un’opera dal grande impatto estetico che riduce i confini della libertà e ragiona sulla solitudine umana, sulla prigionia della diversità in un’epoca (anni ’20 del Novecento) cannibalizzata dai pregiudizi e dal dileggio comune.
Presentato in concorso alla 78. Mostra del Cinema di Venezia.

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