La recensione di Halloween, il cult horror di John Carpenter

I am the one hiding under your stairs, I am the shadow on the moon at night // This is Halloween, everybody scream

1963. Anno difficile questo, soprattutto nella storia degli Stati Uniti: la guerra in Vietnam era appena iniziata, un senso di sconforto e inquietudine attraversava un’intera generazione che si apprestava a scendere su un campo di battaglia che non gli apparteneva e di cui ne ignorava le motivazioni. Si insinuava silente un’angoscia andatasi formando soprattutto nell’America di provincia, quella delle case a schiera tutte uguali e delle famiglie “per bene”. Haddonfield è una delle tantissime cittadine che popolano questa America, nido di uno sconforto e di inquietudine che lì si annida e che può trasformarsi in qualcosa di più grande e maligno. Anche in un bambino di 6 anni che decide, senza nessuna remora né rimorso, di uccidere sua sorella maggiore. Stiamo assistendo alla nascita di un mito malvagio; una genesi filtrata attraverso gli occhi di questo bambino ed esacerbata in una soggettiva con cui farla vivere ancor più intensamente allo spettatore. Stiamo assistendo alla nascita di Halloween (QUI la nostra recensione del sequel di David Gordon Green)

Halloween

  Quindici anni dopo, questo bambino è cresciuto ed è rinchiuso in un manicomio psichiatrico in cura a un dottore di nome Lumis che per tutti questi anni ha visto una sola cosa negli occhi del suo paziente: il vuoto, il male. Il male è un concetto che torna spesso nel film di Carpenter. Un male che appare e scompare come un fantasma, un’ombra, “l’ombra della strega”  protagonista della filastrocca che apre il film dopo una colonna sonora ansiogena e inquietante. Un male che colpisce gli adolescenti che fanno sesso, come in una sorta di punizione per una generazione, quella degli anni ‘70, che giunge dopo la rivoluzione sessuale di fine anni ‘60, quelli che manifestavano contro quella guerra insensata che durava da così tanto tempo e contro un’America che cercava il male altrove e non lo vedeva al suo interno. Michael Myers diventa così il braccio armato dell’America puritana e conservatrice che non accetta tale rivoluzione, oltre a dettare ovviamente le regole del cinema slasher (il sottogenere horror con gli assassini che uccidono giovani vittime armati soprattutto di coltellacci). L’ unica esente da tutto ciò è Laurie Stroode, la protagonista riservata e timida, vestita in modo molto classico e da “brava ragazza”, molto meno emancipata e disinibita nel look e sessualmente delle sue amiche e che infatti “sconfiggerà” il cattivo. Il male e il sesso sono quindi i due ingredienti principali di cui si nutre Halloween, accompagnato da una regia del giovane Carpenter fatta di panoramiche, campi lunghi, carrellate e di una fotografia cupa e a tratti claustrofobica che gioca con l’ombra del mostro. Quelle di Carpenter sono soprattutto inquadrature di spalle che solo nel finale indugiano sul viso dell’ “ombra della strega” , che agisce silenziosa e non parla. Non ne ha bisogno perché non è un essere umano. Lui è un simbolo, il simbolo del male e del più estremo conservatorismo Americano, quelli che credono che il Vietnam sia il solo nemico esistente. Halloween è una rappresentazione di questa America, che può annidarsi ovunque come si percepisce nelle inquadrature finali in una circolarità che ritorna a quel bambino di 6 anni e al 1963, alla nascita di quell’inquietudine e quindi alla nascita dell’ “Ombra della strega”.

Itwas the boogeyman ?”. “As a matter of fact, it was.” 

Riccardo De Nigris