A PIGEON SAT ON A BRANCH REFLECTING ON EXISTENCE, la recensione

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I protagonisti Sam e Jonathan mentre presentano i loro articoli ad un cliente
I protagonisti Sam e Jonathan mentre presentano i loro articoli ad un cliente
Il regista Roy Andersson trionfa alla 71ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia conquistando il Leone d’oro con A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence, una pellicola geniale e visionaria che riflette sulla società contemporanea con grande sarcasmo e senso dell’umorismo. Forma mentis neo-surrealista, Buñuel e Dalì i maestri, e uno spirito d’avanguardia imprevedibile, il cineasta di Göteborg è riuscito a raccontare nella rappresentazione il suo ideale cinematografico, fatto di visioni e di mondi enigmatici, apostrofati con uno stile glaciale ma al tempo stesso ironico e dissacrante.
«Sono felicissimo e profondamente commosso dall’aver vinto questo premio, in particolare in Italia. Questa è la prima volta che il Leone d’oro va a un film svedese, ne sono onorato, qui ho trovato un’atmosfera straordinaria e amichevole, so che avete buongusto» dichiara il vincitore subito dopo la sua proclamazione.
Un riconoscimento meritato che assume una duplice valenza, come premio al miglior film e omaggio alla sua longeva carriera, costruita con passione e dedizione totale per il mondo dell’arte. C’è spazio anche per un plauso d’onore al cinema tricolore che rappresenta, a suo dire, l’illuminazione «da cui vengono tutti i film che mi hanno fatto diventare regista. Autori come De Sica, Visconti, Antonioni, Pasolini, sono tutti straordinariamente importanti nella storia del cinema e lo sono altrettanto quelli della generazione successiva, figli di emigrati negli Stati Uniti. I più grandi registi americani hanno tutti origini italiane. Sono orgoglioso di aver potuto trarre beneficio da persone di cosi tanto talento».
E la fonte di ispirazione del lungometraggio, come conferma l’autore, deriva proprio dal capolavoro neorealista di Vittorio De Sica Ladri di Biciclette, anche se la struttura e i meccanismi ‘onirici’ riportano ai tempi di Un chien Andalou e a L’âge d’or di Luis Buñuel.
La settima arte ha raccolto il suo contribuito negli oltre 40 anni di militanza vissuti dietro la macchina da presa, ma sensibilmente affascinati da tutto ciò che ne stava davanti: volti, oggetti, spazi in una messa in scena che definisce ed esprime una realtà verosimile. Terzo ed ultimo capitolo della trilogia ‘living’ dopo Songs from the Second Floor e You, the Living, il film prende spunto dalla tela rinascimentale I cacciatori nella neve  (Il ritorno dei cacciatori) del pittore fiammingo Pieter Bruegel detto ‘il Vecchio‘, apologo conclusivo di una serie di sei dipinti, nel passato menzionata e trasposta in pellicola da Andrej Tarkovskij nelle sequenze di Solaris (1972) e Lo Specchio (1975) e da Lars Von Trier in Melancholia (2011). Colori pallidi e tenui, così come nei dipinti di fine ‘800 dei macchiaioli Giovanni Fattori e Telemaco Signorini che impressionavano olio su tela i soldati a cavallo, il cui richiamo riporta ai gendarmi del re vichingo Carlo VII rappresentati dal cineasta svedese (di seguito i quadri citati).
Con una parentesi in apertura che racchiude tre incontri ‘casuali’ con la morte, A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence è una commedia chiaroscurale, agrodolce e malinconica mascherata con humour nero dalle battute pungenti dei protagonisti, due rappresentanti affetti da latente tristezza che veicolano le rispettive energie per portare sorrisi e felicità alle persone con i loro articoli ‘scherzosi’, denti da vampiro, sacchetti ridenti, e bizzarre maschere da zio dente solitario. La capacità nel dipingere con leggerezza la tangibilità del passato, cinica e schiacciante, attraverso le pennellate espressioniste nei tableaux vivants, ha trovato nel linguaggio diretto e maturo il suo punto di forza. Straordinari gli insert-interruzioni del film, scanditi dalla frase ricorrente ‘sono contento di sentire che le cose vanno bene’ ripetuta al telefono dai personaggi che, mentre assistono inermi al tracollo della loro vita, la utilizzano per rassicurare gli interlocutori e passare il testimone alla scena successiva. Una fotografia in movimento di 100 minuti, in 39 piani sequenza ad inquadratura fissa che prendono vivacità come tavole animate attraverso i continui spostamenti degli interpreti. Salti pindarici tra presente e passato con un leitmotiv musicale comune, quel John Brown’s Body (celebre canto secessionista) che viene riadattato nel testo a seconda delle situazioni in cui vengono inseriti gli ‘alfieri’ dello scacchiere di Andersson. C’è tutto ciò che appartiene ad un Musical: i canoni e le regole stilistiche rispondo alla voce ‘all talking, all singing, all dancing’ nella cornice seppur breve in cui vengono ripresi i commensali in festa nella taverna di Lotta la Zoppa (vedi foto qui sotto).
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Scena ‘musical’ nella taverna di Lotta la Zoppa
Personale e coerente per tutta la pellicola, il regista scandinavo conduce con lucidità e freddezza la sua meditazione sull’esistenza, avvalendosi dei due protagonisti per osservare quello che gli esseri umani fanno e continuano a fare, come se la vita stessa fosse un enorme paradosso, e ognuno di noi il piccione che osserva immobile l’inesorabile susseguirsi degli eventi. Elucubrazioni mentali intriganti smorzate dalla cifra grottesca ed assurda dei personaggi slapstick, dialoghi ‘non sense’, intervalli di silenzio, e fotogrammi pigmentati, avvolti da una dura critica al mondo contemporaneo, rendono la pellicola estremamente comica e divertente anche per coloro che non strizzano l’occhio con entusiasmo alle commedie non propriamente tradizionali.

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