INTERVISTA ESCLUSIVA AL REGISTA DEL CORTO FERINE
ANDREA CORSINI
Alla 76esima Mostra del Cinema di Venezia venne presentato Ferine: un cortometraggio che fece molto parlare di sé. La storia racconta di una donna (Anna Della Rosa) che vive in una villa abbandonata, lontana dalla civiltà, e mangiando…carne umana.
È iniziata da lì la corsa del regista Andrea Corsini e del suo lavoro in giro per il mondo. Dopo essersi guadagnato numerosi premi, tra cui il primo premio al Nightmares Film Festival Columbus e il premio del pubblico al New York City Horror Film Festival, Ferine è arrivato finalmente in televisione, la notte di Halloween, su Cielo.
Abbiamo raggiunto il regista Andrea Corsini per farci raccontare le emozioni di questo debutto.
Ciao Andrea, andiamo subito al sodo: i lettori che saranno incuriositi dall’intervista dove possono vedere Ferine?
Ferine è andato in televisione su Cielo la sera Halloween aprendo una serata dedicata al cinema horror italiano. Un evento unico e raro per i cortometraggi. I passaggi futuri sono quindi nelle mani dell’emittente. Possono metterlo in onda quando vogliono nei prossimi tre anni, ma credo che dovrà esserci un’occasione come le “Notti Horror”. Una cosa è certa però: non è un corto che libererò mai sul web, anche perché è legato a stretto filo con il progetto di un lungometraggio basato su questa storia, che sarà intitolato Beasts of Prey.
Questa è un’ottima notizia che non sapevamo! A che punto sei della lavorazione?
Ad un punto… particolare. Devi sapere che il progetto è nato al contrario. Inizialmente avevo un trattamento esteso di un lungometraggio che mi girava nella mente da tempo. E che ora è Beasts of Prey. Ferine nasce da quello, in versione “ridotta”. L’idea era (ed è tutt’ora) quella di raccontare un personaggio che ha a che fare con una trasformazione profonda che risveglia il suo lato primordiale e gli distrugge la vita. Una storia di accettazione dell’ “altro lato” di noi che crea guai e situazioni fuori controllo, esattamente così come è in Ferine.
Pensa che inizialmente il primo titolo era “Animali notturni”. Poi è arrivato un filmetto non proprio trascurabile (ride, il riferimento è chiaramente al film di Tom Ford) e ho quindi cercato un nuovo titolo. Ma la sostanza non è cambiata.
Torniamo a Ferine: il cortometraggio non ha pressoché alcun dialogo, se non quelli di atmosfera, ed è giocato tutto sull’uso dei dettagli e degli spazi. Come avete lavorato tu e il montatore Matteo Mossi?
L’approccio formale, inteso come linguaggio, non come estetica, è stato la chiave per fare funzionare le cose. Sapevo che c’erano tante cose che volevo raccontare: c’è la parte di genere, il racconto del mostro, l’avvicinarsi a lui… c’era così tanta narrazione che non sarei mai riuscito a condensarla in pochi minuti.
Ho capito che la chiave del racconto doveva essere quella osservativa. Di conseguenza la forma ha seguito l’idea narrativa. Per me osservare significa anche restare più fermo e lasciare il personaggio libero di muoversi e agire nell’inquadratura. Questo ha creato tempi narrativi anomali, quasi da lungometraggio. Però ha guidato il linguaggio: il film procede per poche inquadrature. Io e il montatore ci siamo presi un rischio: se la scena non funziona non hai modo di aggiustarla. Dall’altro lato abbiamo capito che potevamo procedere a blocchi permettendoci ellissi temporali.
Certo, non aiuta a ridurre il rischio produttivo il fatto che il corto sia solamente visivo…
Quando durante la scrittura ho capito che la chiave era proprio osservare il personaggio e di avvicinarsi gradualmente, anche il resto della storia ha seguito questa scelta. Perché non ci sono dialoghi? Perché la donna protagonista ha smesso letteralmente di parlare, e perché le parole della vittima sono solo di ambiente, di reazione, ma mai di interazione diretta. Si ritorna a una dimensione selvaggia.
Qual è il tuo rapporto di regista con la violenza? Ferine sembra un cortometraggio incentrato sulla bellezza delle immagini, riflessivo, e poi all’improvviso ci sono esplosioni di violenza, ma tutte con un sottile velo di cinismo…
Come idea di cinema ho un’attrazione fortissima con la violenza, anche quando è più gratuita di come la intendo io. In quei casi mi diverto, ma non è il cinema che mi interessa. Ci sono molti preconcetti sul genere. Quando dici “cinema” sono tutti contenti, quando dici “horror” iniziano a inscatolare in categorie: “il film alla Carpenter, il film alla Fulci etc…”. È chiaro che se ti piace il genere quei riferimenti ce li hai ben presenti, ma non mi importa più di tanto fare un’operazione nostalgia. Il genere è per me solo uno strumento per raggiungere un fine.
Senza anticipare troppo: c’è un momento che comprende un pasto decisamente horror. Che cosa hanno mangiato in realtà gli attori? E che sapore aveva?
Per pochi secondi di scena abbiamo lavorato moltissime ore ai fornelli. Anna De Rosa ha mangiato carne trita mista a un preparato dolciastro. Orribile. Il nervo che vedi invece è un effetto pratico in silicone. Che fatica trovare il ciak giusto! Con i bambini invece li abbiamo “coinvolti nel gioco”. Mentre realizzavamo la sostanza che doveva fare la carne umana, abbiamo cucinato insieme, facendogli scegliere le caramelle che preferivano da mettere nel preparato.
Te l’avranno già chiesto mille volte, ma devo proprio domandartelo anche io: come ti è venuta l’idea di Ferine? Sembra quasi una versione horror e pessimista de Il ragazzo selvaggio di François Truffaut.
È la versione horror del Ragazzo selvaggio, sì! Diciamo che Ferine, come ti dicevo, è nato con uno stretto legame con il progetto del lungometraggio Beasts of Prey. Avevo in mente questa suggestione: una figura femminile torna a casa. Gradualmente si scopre che non viveva in quel luogo perché si dirige verso il bosco. Si scopre quindi che trascina un essere umano appena catturato e insieme ai figli banchetta con il malcapitato. La famiglia è riunita.
Da qui ho sviluppato alcuni temi: volevo creare un horror sul cannibalismo, ma in un contesto urbano. Volevo raccontare come abbiamo dimenticato di essere anche noi, fondamentalmente, animali. Per questo nelle azioni della protagonista non vedi mai la rabbia.
Da che suggestione sei partito?
Ero a Roma una sera. Mi si avvicina una donna senza fissa dimora che chiedeva del latte in polvere per il bambino che portava con sé. Io ero di fretta, da solo, distratto, l’ho congedata velocemente pentendomene subito dopo. I suoi occhi mi erano rimasti impressi. Ci pensavo durante il viaggio in metropolitana per tornare a casa. Quando sono sceso, ancora con quel volto in mente, ho visto un cartellone di National Geographic con la mamma leonessa e i cuccioli sporchi di sangue. Ho rivisto gli stessi occhi e la stessa energia della madre nella leonessa. Cosa può fare una madre per proteggere i propri figli? Ecco Ferine.
Nel tuo lavoro troviamo la civiltà e mondo selvaggio, società dei consumi (rappresentata dai molti supermercati che vediamo) e simboli di opulenza come la bellissima villa… vuota. Temi portati al grande pubblico anche da Parasite. Secondo te è di questo che parlerà il cinema di domani?
La suggestione di Parasite è correttissima, ma puramente casuale. Ho visto il film a montaggio finito di Ferine. La centralità della villa in Parasite mi aiuta oggi a spiegare meglio ai finanziatori la mia idea di Beasts of Prey (n.d.r in Ferine la villa ha un ruolo chiave nel contrasto con l’ambiente esterno in un modo simile a quello del film di Bong Joon-ho, anche se i due lavori sono quanto mai distanti).
Nel cinema di oggi il tema del selvaggio sta ribollendo in molte forme, ma non so però se interessa di più il mostro o l’allegoria. In The Wailing ad esempio c’era tanto del mostro ma alla fine va a finire nel folclore che media il lato animale. Hors Satan di Dumont parla della piccola provincia che ha perso i codici di contatto con la propria anima, ma anche qui l’intreccio viene risolto dall’arrivo di un santone che guarisce e uccide. A me interessa di più la provincia della metropoli per raccontare l’oggi. Ho trovato un bel contrasto tra quello che è il rito mostruoso (visto dai civili) e la normalità in Midsommar. Alla fine il villaggio folkloristico, sembrava più normale dei personaggi moderni.
Non so quindi cosa vedremo. Spero però che l’horror continui a inquietare e non a fornire messaggi consolatori accondiscendenti