Abbiamo intervistato il saggista, sceneggiatore, poeta e scrittore Roberto Donati. Ecco cosa ci ha raccontato!

Buongiorno Roberto! Vorrei cominciare questa intervista in un modo un po’ particolare, chiedendoti di parlarci della tua grande passione per l’immenso Sergio Leone, che ti ha portato a scrivere su di lui libri e a fare conferenze sul suo cinema in giro per il mondo…

Ciao, Massimo, e ciao a tutti i lettori di CineAvatar! Prima di tutto, grazie per questa bella opportunità. Sergio Leone dunque? Dico la verità: me lo aspettavo. Sì, ho scritto tre saggi (due con Falsopiano, uno con Gremese) su Sergio Leone e/o i suoi film, soprattutto i western, per me i suoi migliori; in più, su di lui, effettivamente ho scritto anche tanti altri articoli, saggi, speciali e ho avuto l’onore e l’onere di curare varie retrospettive, parziali o complete, in giro per il mondo, grazie alla rete degli Istituti Italiani di Cultura (IIC) o di altri enti culturali vari. Di solito si crede che Sergio Leone sia la mia più vera, grande, smodata passione, a volte si ipotizza addirittura l’unica. Beh, non è affatto così. Reputo Sergio Leone un gigante del cinema, questo sicuramente, ma ci sono anche tanti aspetti dei suoi film, della sua poetica, della sua tecnica che non mi piacciono o non mi convincono fino in fondo: per esempio, una certa propensione al lirismo enfatico, che quando è ben ammaestrata produce esiti straordinari, ma quando, al contrario, si autocompiace di sé e/o risulta abbastanza senza freni, produce anche cose grottesche, ridicole o non così epiche come si è forse creduto o come si vorrebbe credere. Ad ogni modo, ho scoperto Sergio Leone da bambino e da adolescente, come tanti: il suo cinema, soprattutto la prima trilogia del dollaro, si tramanda di generazione in generazione, soprattutto maschile, da padre in figlio cioè, chissà da quanto in Italia (e non solo in Italia). 

Quando poi, sempre più appassionato di cinema, ho deciso di intraprendere studi universitari di settore e ho deciso di laurearmi in Storia e Critica del Cinema, alla fine del mio percorso ho scelto una tesi sul suo cinema perché, dopo tanta teoria discutibile e dopo tanta semiotica del cinema a mio avviso mortalmente noiosa, avevo bisogno di tornare drasticamente alla mia prima vera e ancora più autentica passione: il Cinema, quello fatto di linguaggio, di tecnica, di regia, oltre che di contenuti. La forma che veicola la sostanza: da lì, la scelta del suo magistero, inizialmente osteggiato dal mio relatore universitario, perché ancora Sergio Leone non è, almeno in Italia, “regista da accademia”. Poi però tutto è andato bene, la tesi fu apprezzata molto e, senza che io lo sperassi, mi aprì le porte della prima pubblicazione. Ci tengo a precisare, tuttavia, che ho sempre fatto tutto da solo: mi sono cercato le opportunità e le ho perseguite fino in fondo. Di sicuro, però, il fatto che avessi così tanto lavorato su un regista forse ancora più amato all’estero che in Italia, almeno dal punto di vista intellettuale, mi ha favorito e mi ha per fortuna spalancato qualche finestra che altrimenti sarebbe rimasta, credo, chiusa. Se Sergio Leone fosse in assoluto il mio regista preferito, o un idolo, o qualcosa del genere, non ne potrei scrivere: per come la vedo io, dei personali nomi sacri non bisognerebbe troppo parlarne. Per questo, alla fine, di Sergio Leone riesco a scrivere e a parlarne tanto: mi piace molto, lo stimo, lo amo probabilmente, ma non lo venero.

roberto donati

Quando e come nascono le tue grandi passioni, che hai trasformato in professioni, per il cinema e la scrittura?

Per la scrittura, credo, implicitamente, da sempre. Ho imparato a leggere e a scrivere a quattro anni, per emulazione di mio fratello più grande che andava già a scuola e doveva ovviamente leggere e scrivere: a lui non piaceva tanto, a me sì, fin da subito. Credo di essere nato per le parole, soprattutto quelle scritte (da scrivere o da leggere, s’intende): ho una foto, a me molto cara, di me seduto in una panchina al parco con accanto mio nonno. Io ho quattro anni e leggo un giornale spiegato più grande di me, mio nonno ha la faccia sbigottita. Forse la penso come il Calvino delle “lezioni americane”: con la scrittura mi sento più lucido, accurato, preciso, essenziale; con la scrittura padroneggio meglio le mie emozioni e i miei sentimenti, perché la scrittura permette un tempo “morto” per la riflessione critica; nella scrittura e con la scrittura, mi sento completamento a mio agio, in tutti i sensi possibili. Mi sento di padroneggiare i registri, gli stili, le possibilità che questa offre, le emozioni che io voglio veicolare; dal vivo, invece, o a parole, tendo più spesso a essere impacciato, timido, non essenziale, non efficace.

Mettici, poi, che sono sempre stato un avido lettore: prima di tutto di fumetti (la scuola italiana di Walt Disney su tutti, che mi ha insegnato involontariamente tutto quello che credo ci sia di importante da sapere sullo scrivere; poi, da adolescente, lo Sclavi di Dylan Dog e via via il resto, supereroi esclusi però, un mondo fumettistico e cinematografico che non mi ha mai affascinato, anzi mi ha sempre mortalmente annoiato, tuttora pure), poi letteratura di ogni genere (da quella romanzesco-avventurosa a quella d’autore psicologica), infine cinema. Arrivo al cinema e alle sue immagini presto, ma sempre più tardi rispetto al valore che per me ha un testo e la scrittura: del cinema, infatti, mi catturano sia la potenza delle immagini, certo, ma soprattutto la capacità intrinseca di mitopoiesi, soprattutto del grande cinema americano, quello che per me, ancora oggi, è il miglior cinema mai prodotto. Gli americani, con lo spettacolo nel sangue, hanno capito prima e meglio di tutti gli altri che il cinema potesse essere l’epica contemporanea. Certo, poi li si potrà accusare di retorica e di faciloneria, ma negli esiti maggiori – penso ai noir degli anni Quaranta, ai western dei Cinquanta, a tutta la New Hollywood – ci hanno reso la vita migliore, più bella, più grande come dicono loro. Lo si può negare questo? A mio avviso no. Ecco, la scrittura/lettura prima e il cinema, questo cinema qui, poi mi hanno insegnato a crescere sognando a occhi aperti. Ed è stato, ed è quando ancora succede, bellissimo. Forse la cosa più bella che mi sia mai successa, nella vita.

La tua carriera artistica e professionale è incredibilmente variegata: puoi dirci qualcosa innanzitutto sulla tua attività di sceneggiatore?

Se dagli anni universitari cominciai a scrivere critica e saggistica cinematografiche, da qualche anno dopo la laurea ho cominciato a scrivere soggetti, sceneggiature e trattamenti. A volte per miei cortometraggi amatoriali, a volte per concorsi, a volte per farmi le ossa. Dopo la laurea, mi trasferii a Roma per provare a entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia: questo non accadde, tuttavia in compenso mi ero creato tanti contatti e, a forza di proporre storie e soggetti, sono arrivato a collaborare, fra gli altri, con alcuni nomi importanti del cinema italiano: Alessandro Angelini, Matteo Garrone, i fratelli Vanzina, Giovanni Veronesi, Egidio Eronico, Alessandro Aronadio. Per Garrone, per esempio, nel lontano 2008-2009, dopo il successo del suo Gomorra, scrissi una versione americana del trattamento di quello che poi, anni dopo, sarebbe diventato Dogman; al tempo, però, purtroppo, il progetto non venne portato avanti dal regista e morì lì. Anche con gli altri registi, non sono stato tanto più fortunato: come spesso avviene nel cinema, i progetti nati e sviluppati spesso non hanno avuto un esito poi positivo. Se un film a cui lavori non esce al cinema, o da qualunque altra parte, del resto è come se tu sceneggiatore non avessi scritto nulla. Ad ogni modo, è stata una palestra fondamentale per me: quando ho abbandonato Roma, non ho smesso di scrivere e alla fine, fra cortometraggi (uno, Cicciolina Pocket, è in pre-produzione per la regia di Claudio Casazza), lungometraggi (alcune collaborazioni con il regista Gianluca Colitta, per esempio) e fumetti, sono riuscito e sto riuscendo a realizzare qualcosa.

roberto donati

Vorremmo saperne di più anche sulla tua longeva attività di saggista, grazie alla quale hai ricevuto molti premi, menzioni e riconoscimenti.

Tutto è nato dopo la pubblicazione del mio primo saggio pocket per Falsopiano: Sergio Leone. America e nostalgia, 2005. Era una versione accorciata e rimaneggiata della mia tesi di laurea, e credevo che non l’avrebbe letto nessuno; invece fu molto apprezzato dai lettori e dagli addetti ai lavori, divenne un testo abbastanza importante nella bibliografia su Leone, vinse vari premi fra cui il Leone di Pietra da parte dell’Associazione dedicata al regista, il Premio Tagete e il Premio Filippo Sacchi. Da lì, per anni ho collaborato con diverse case editrici per volumi collettanei o con riviste di settore: Le Mani, Quaderni di Cinema Sud, Nocturno, Morpheo Edizioni… Nel 2009, anniversario di nascita e di morte di Leone, Falsopiano volle ripubblicare il saggio e io ne proposi una versione ampliata (Sergio Leone. L’America, la nostalgia e il mito): a corollario dell’analisi critica, stavolta curai tutta una lunga serie di interviste a persone che avevano collaborato con Leone dal vivo o che lo avevano studiato prima di me; in più, a impreziosire il tutto ci furono e ci sono le illustrazioni in forma di fotogramma del pittore marchigiano Luca Zampetti. Anche questa nuova versione fu molto apprezzata, molto di più dell’altra: forte di questo risultato, ho tentato di promuoverla anche attraverso i canali degli istituti Italiani di Cultura. Con mia sorpresa, dopo tanta iniziale reticenza, iniziarono a rispondermi e a dichiararsi interessati: per 3-5 anni ho girato mezzo mondo (Seoul, Il Cairo, Bogotà, Vilnius, Bucarest, Istanbul, Oslo, Monaco di Baviera…) organizzando rassegne in particolare su Leone e in generale sul cinema italiano, tenendo seminari e conferenze, curando retrospettive che in alcuni casi sono state uno straordinario successo.

Successivamente, ho ideato e per alcuni anni curato la collana di cinema per la casa editrice Bietti di Milano: si chiama Bietti Heterotopia ed è stata a mio avviso una ventata di aria fresca in un panorama editoriale stantio e ammuffito; la collana esiste ancora ma è diventata una cosa a mio avviso anonima o che comunque non riconosco più, non ha più le caratteristiche e le intenzioni con cui era nata. Tutto sommato meglio così, dato che il passaggio dalla mia curatela a quella attuale, durante il quale letteralmente “mi hanno fatto le scarpe” dall’interno, non è stato per me affatto indolore. Abbastanza schifato dal panorama editoriale italiano, sia da un punto di vista umano sia da quello professionale, oggi scrivo molto meno o molto poco, anche se di recente, 2018, Gremese Editore mi ha chiesto di scrivere una nuova monografia sempre su Leone, incentrata sul film C’era una volta il West. Ho accettato e, a oggi, da quello che mi è stato detto, il saggio è uno dei best seller della collana di cui fa parte.
Qui, per gli interessati, un sunto delle cose dette, fatte, scritte: https://linktr.ee/ildonati

roberto donati

Non solo, sei anche un poeta. Sei riuscito a pubblicare le tue poesie? In generale, nelle tue poesie quali argomenti affronti?

Scrivo poesie dai vent’anni: inizialmente, con esiti disastrosi, erano poesie dettate da una certa emozione o da un’ispirazione forte. Poi, piano piano, ho imparato a limare, lavorare, setacciare i testi. Non so se questo fa di me un poeta, e semmai mi ritengo più un avido lettore di poesie, ma sicuramente ritengo siano poesie questi lavori più meditati e sofferti. Durante il lockdown nazionale di marzo-giugno 2020, ho scritto nuove poesie e ho raccolto le vecchie che ancora mi parevano avere un senso, riscrivendole poi da capo: è stato un lavoro veloce, ma intenso e metodico. Alla fine, raggiunto un esito che mi è parso soddisfacente, ho scritto a qualche casa editrice, proponendo il materiale. Mi hanno risposto con interesse in tre, a quel punto ho valutato i contratti e le condizioni e ho scelto di pubblicare con Transeuropa Edizioni, di Massa, che ha una collana notevole di poesia contemporanea oltre ad aver lanciato, anche in passato, alcuni importanti nomi, sia nella narrativa (uno su tutti: Enrico Brizzi) sia nella poesia (Qui la presentazione del volume).

La mia è poesia esistenziale, molto spesso d’amore: amori sofferti, malinconici, non corrisposti, se corrisposti comunque travagliati, solitari, elusivi. Vincono il pudore e il sentimento trattenuto, nella tradizione della poesia novecentista: non a caso, la raccolta si intitola “postmoderni”, perché gioca continuamente con gli stilemi e i valori di quel sistema, a volte criticandoli, a volte non potendo che sancire un tacito fallimento della poesia contemporanea che ha provato, piuttosto vanamente, a smarcarsi da quel sentire lì. Non siamo più nel postmoderno, oggi, ma in realtà è come se ci fossimo sempre: e spesso nemmeno ce ne accorgiamo.

Hai collaborato con tantissime riviste di cinema cartacee e online, alcune delle quali storiche e molto importanti nel panorama della critica. Il ruolo del critico cinematografico, negli ultimi tempi, è stato messo pesantemente in discussione, soprattutto dal mondo dei cinefili legati al web. Si dice, in sostanza, che non serva più una critica seria e preparata per i film, frutto di uno studio approfondito e accademico della materia. Tu cosa ne pensi?

Ormai qualche anno fa, il critico Paolo Mereghetti, quello del famoso “Dizionario” e a mio avviso, al netto di tante riserve, uno dei migliori critici cinematografici italiani di sempre, ricordo che innescò una polemica sul fatto che la critica web fosse inferiore se non deleteria rispetto alla critica cartacea. Probabilmente esagerava, e sicuramente c’è da dire che le riviste online e i siti web hanno dato voce e spazio a critici più o meno giovani molto interessanti che non avrebbero avuto modo, magari, di scrivere altrove; allo stesso tempo, tuttavia, credo che Mereghetti, in nuce, avesse ragione. La critica online è diventata a mio avviso una pianta infestante: si è replicata all’infinito e oggi chiunque è critico. Lo era già ai tempi di Truffaut, figuriamoci nell’epoca in cui chiunque può dire, gratis, la propria opinione. La democratizzazione della cultura e della critica cinematografica ha prodotto mostri: tutti, spesso senza competenze né reali urgenze se non quelle di apparire ed esserci nonostante tutto, scrivono critica cinematografica, così come tutti sono ormai scrittori tout-court.

Esiste una critica social, che analizza praticamente in diretta film, festival, piattaforme e quant’altro: non c’è più il tempo della sedimentazione e della riflessione. La critica è diventata sempre più autoreferenziale, sterile, arida: non parla quasi più dell’oggetto in sé, per esempio il film, ma parla del rapporto del critico con quell’opera. A chi serve una cosa del genere? A nessuno. Se va bene, sono spesso sfoggi di cultura non richiesta o qualcosa di simile; se va male, la critica è anche scritta male e con conoscenze del cinema di dubbio, o di pessimo, gusto. Ho quasi smesso del tutto di leggere critica cinematografica: mi annoia e, in ogni caso, non è quasi mai realmente utile. Sempre di più vince e vincerà la moda del momento, il trend topic: parlare di quel film, con accesi toni polarizzati (o capolavoro o schifezza), per parlare di sé. Il mondo culturale in generale mi sembra stia subendo una involuzione preoccupante: mancano etica ed estetica, per esempio. A leggere i social o le recensioni, invece, sembra che esca un capolavoro ogni due giorni, forse anche meno. Mi dico ogni volta che c’è qualcosa che non va, e non escludo che quel qualcosa che non va sia io: ma tant’è, questo è il mio sentire (che giustamente importerà a pochissimi, beninteso).

roberto donati

Dal tuo percorso artistico e professionale, ma anche dalle tue tante pubblicazioni, si percepisce che uno dei generi cinematografici che più apprezzi è l’horror. Quali sono i tuoi horror preferiti? Quali, in particolare, gli horror italiani che ami di più?

Dici bene. L’horror è proprio il mio genere preferito, sia in letteratura, sia nei fumetti (ne ho scritto uno, del resto: L’abisso è ovunque, disegni del Borg, Weird Book Edizioni), sia al cinema. Mi piace tanto l’horror splatter, o gore o body o slasher, quanto l’horror psicologico. So che a tanti l’horror non interessa, o spaventa: beh, io spero sempre proprio di spaventarmi, e non accade quasi mai invece. In più, l’horror è genere anomalo: può essere politico, sociale, impegnato.. Credo che il miglior horror di tutti i tempi sia Shining di Stanley Kubrick: solo l’attacco merita di stare nei vertici del perturbante. Poi amo molto gli horror degli anni Settanta: da Carpenter a Craven, dagli zombi di Romero ai vari slasher (anche minori). L’altro mio caposaldo è Nightmare – Dal profondo della notte di Wes Craven: un autentico capolavoro. Craven, magari più rozzo e meno raffinato di Carpenter da un punto di vista registico, azzecca una storia e un personaggio geniali, non si fa distrarre dalle potenzialità comiche del suo babau (sfruttato invece così nei tanti scialbi seguiti) e, in maniera tesa e inquieta, racconta l’altra faccia, quella dark, del sogno edonista americano.

Sempre dagli anni Ottanta, un terzo capolavoro: Hellraiser di Clive Barker. Più body horror di Cronenberg, un film stranissimo e malato, creativo e disturbante: i famosi Supplizianti sono a mio avviso un’altra pietra miliare del genere. Gli ultimi decenni sono stati invece, ahimè, scialbi, anonimi, cialtroni: l’orda di remake e reboot è stata ed è tuttora imbarazzante. Qua e là, ovviamente, si salvano “isole felici”, ma è come se il genere, in generale e soprattutto in Italia, non riuscisse più a parlare di cose autentiche, sincere, viscerali. E poi, purtroppo, non spaventa, non disturba, non strania più. Qualche voce emerge: penso al Robert Eggers di The Vvitch, soprattutto al dittico di Ari Aster, a It Follows di David Robert Mitchell… Gli horror italiani che amo di più sono quelli di Mario Bava, alcuni (pochi) di Lucio Fulci, Suspiria di Dario Argento (regista con cui ho lavorato e che però mi piace molto molto poco, a dispetto della fama che ha), di recente qualcosa di Lorenzo Bianchini, in particolare quelli meno rifiniti e più grezzi se vogliamo, ma più genuini e originali.

Pensi che il cinema horror, come fu negli anni 70, possa essere ancora un genere sovversivo e anti-sistema?

Lo spero e lo spererei tanto, ma a dir la verità credo e temo proprio di no. Almeno a giudicare dalle continue uscite, tutte più o meno “laccate”, patinate, decorate ma ben poco viscerali. Del resto, se l’horror riflette anche la stagione politica che lo ha permesso, beh… questa lunga stagione politica è imbarazzante per infantilismo, per totale mancanza della decenza, per totale assenza di segretezza o mistero. Tutto è “a vista”, in questa nostra società attuale, tutto e troppo: e anche l’horror è diventato didascalico, spiegato, manifesto. C’è una preoccupante mancanza di immaginazione e, di conseguenza, di creazione di immaginari. Il cinema di genere, in cui l’horror è inserito, è in aperta e perenne crisi, a mio avviso, specialmente in Italia: checché ogni tre per due si dica che è nato e rinato come l’Araba Fenice.

Cosa ne pensi dell’irreversibile decadenza del panorama legato al cinema italiano horror, thriller e giallo, indie e non?

Penso sia un problema culturale, un problema politico, un problema economico, un problema di tradizioni, un problema di immaginario. Non se ne esce, a mio avviso; quantomeno, non se ne sta uscendo. E poi viviamo nell’epoca del politicamente corretto: come fa il “genere” vero a uscirne, a imporsi, a rinascere? Tutto è triturato e liofilizzato per un pubblico di bocca buonissima o che si accontenta. Non si investe più nella ricerca, nella sperimentazione, nel rischio: tutto si è seduto e accomodato. Con queste premesse, generi forti e si spera scomodi come quelli indicati non possono che atrofizzarsi, fino a scomparire o diventare altro. Altro che nemmeno sappiamo più come nominare, in caso.

Hai scritto anche dei romanzi a fumetti, ce ne puoi parlare brevemente?

Nel 2010 ho scritto, con Pierfrancesco Prosperi (e disegni di Valerio Galassi), e pubblicato, con EF Edizioni di Milano, Quattro storie nere, un omaggio al noir americano (e italiano: quello di Scerbanenco), un altro mio genere prediletto. Chi lo ha letto, lo ha apprezzato: ma la distribuzione è stata scarna e scarsa.
Nel 2019, invece, con l’amico illustratore Borg (ovvero, Gianluca Borgogni) abbiamo pubblicato, per i tipi della Weird Book di Roma, L’abisso è ovunque, una nostra rilettura personale dell’horror puro e duro, nudo e crudo. Progetto indipendente di nicchia, ha avuto e sta avendo un notevole successo: ha ricevuto premi, si vende bene, piace tantissimo. Chi lo legge, ci dice una cosa che ci sembra significativa e ci gratifica: fa paura, spaventa, turba, perturba, disturba. Bene, per noi l’horror è e deve fare questo; e se questo accade, non siamo che contenti. Se vi interessa, il volume è questo qui.

Oltre all’horror e al western, quali sono gli altri tuoi generi preferiti?

Come detto sopra, amo molto il noir americano: sia quello classico, dagli anni Trenta agli anni Cinquanta, sia quella della revisione, degli anni Settanta. Da Howard Hawks a Roman Polanski, per intenderci. Credo intanto che il noir, almeno in parte, sia una sorta di prosecuzione urbana, o meglio metropolitana, del western: nelle metropoli del noir (Chicago, Los Angeles, New York…) non c’è più il senso della giustizia e il divario fra Bene e Male è confuso, ambiguo, equivoco, però, sotto sotto, c’è forse la stessa tensione etica, e in parte anche estetica. Dei generi narrativi forti amo le sfumature, le contraddizioni, la capacità di parlare dell’essere umano attraverso storie, codici e stereotipi tanto spicci e concreti quanto, se padroneggiati da autori o da grandi mestieranti, astratti se non poetici. Detour di Edgar G. Ulmer, per dire, è una grande riflessione sul Caso, sul Destino, sulla Fortuna; e sul senso, vano, dell’uomo. Quando il cinema di genere riesce a diventare riflessione filosofica, esistenziale, senza per questo perdere il suo connotato tangibile di narrazione creata prima di tutto per intrattenere e intrigare, mi sembra di essere a casa: in questo spettacolo trovo collocamento e senso, sia come spettatore sia poi come possibile autore. Detto questo, devo anche dire che sono onnivoro: ho spaziato e spazio dappertutto, epoche, generi, autori, nazionalità, cinematografie. Per dire, il cinema storico non è fra le mie passioni, eppure il mio film preferito su tutti, Barry Lyndon di Stanley Kubrkck, è un film storico. E Ran di Akira Kurosawa, sempre storico, gli va molto vicino.

Quali sono i tuoi registi preferiti del passato?

Li butto là a elenco? Ma sì! Georges Méliès, Charlie Chaplin, Buster Keaton, Erich von Stroheim, John Huston, Raoul Walsh, John Ford, Charles Laughton, Michael Cimino, Terrence Malick, Andrej Tarkovskij, Alfred Hitchcock, Ingmar Bergman, il Woody Allen drammatico, Victor Erice, Akira Kurosawa, Sergio Leone, Elio Petri, Steven Spielberg, Stanley Kubrick, Yasujiro Ozu, Masaki Kobayashi, Arthur Penn, Philip Ridley… E chissà quanti altri…

Hai lavorati molto anche per il cinema e la tv, in ruoli di ogni tipo, dal runner all’aiuto regista, dallo sceneggiatore alla comparsa, dal consulente al segretario di edizione. Cosa ami e cosa odi della vita sul set?

Ho “praticato” la vita del set per tanti anni, più o meno dai venti ai trent’anni. Non la rimpiango troppo: la trovai nervosa, stancante, stressante, piena di complicazioni e di ansie. Non amo l’idea di non staccare mai dal lavoro, quale che sia questo lavoro, anche il più bello e divertente, per ore e ore, per poi forse portarselo anche a letto, di notte. Non amo l’idea di non avere pause, se non brevi, contingentate, a scadenza, in qualche modo sempre tese. Non amo i rapporti, spesso di forza, che si creano in situazioni di tensione, che sia questa più o meno esasperata. Probabilmente, alla luce di queste considerazione, e di tante altre che potrei apportare, penso che per indole non sia così fatto per la vita da set; e infatti, ripeto, non è che la cerchi assiduamente, se capita va anche bene, ma occasionalmente e limitatamente. Detto questo, ho molto amato, al contrario, certi rapporti personali e lavorativi che si sono creati quasi per miracolo, rapporti profondi pur nella concitazione della lavorazione o nella contingenza dei tempi oppure rapporti di sincera amicizia. Ho molto amato anche la speciale atmosfera adrenalinica, al netto della tensione di cui parlavo prima, che a volte si innesca e si crea, come dal nulla, su certi set. E quando questa, a fine giornata lavorativa, si stempera, si scioglie, si ammorbidisce, si addolcisce e, magari nelle cene con la troupe, diventa anche altro: quasi una magia, un incantamento.

Sei stato attore nel film “La terza madre” di Dario Argento!! Raccontaci, siamo molto curiosi!!

Sì, per l’esattezza, come da titoli di coda del film, sono il Demone #2, fra i tre che siamo. Com’è nata questa esperienza? In maniera tanto naturale quanto anomala. Avevo (ho) un amico aiuto regista, con cui mi sentivo occasionalmente: a quel tempo, mi disse che stava lavorando al nuovo film di Dario Argento, l’ultimo capitolo della trilogia delle Tre Madri. Mi congratulai con lui e fui felice di questa sua esperienza. Poi mi richiamò lui: stavano cercando, per le figure dei demoni, degli attori non professionisti, presumo per pagarli meno, di bassa statura, che non soffrissero di claustrofobia. Avevo tutte queste caratteristiche, e allora mi chiese se non mi fosse andato di fare il demone per Dario Argento. Vista la mia passione per l’horror e visto che al tempo ero inoccupato, accettai subito: il giorno dopo ero già a Roma allo studio di effetti speciali di Sergio Stivaletti. Con grande professionalità e simpatia, mi fece immediatamente il calco facciale per creare la maschera da demone che avrei indossato: la mia ha la lingua biforcuta e un dito che scappa fuori dal naso.

Purtroppo non l’ho potuta tenere perché, a comprarla, costava troppo per le mie tasche di allora (e di oggi). Dopo la prova maschera, passammo alla prova costumi: ci fece visita Dario Argento in persona, che però mi sembrò piuttosto confuso nella scelta del vestiario dei demoni. Lui aveva in mente qualcosa come “un demone assiro vestito però come un drugo di Arancia meccanica”: effettivamente, l’esito non è stato dei migliori, a mio avviso. Comunque sia, io mi stavo già divertendo un sacco e mi sarei divertito ancora di più. Girammo a Torino, alla Pinacoteca Albertina, fra novembre e dicembre: io restai sul set una settimana o dieci giorni circa, poi sarei dovuto tornarci, a Roma e agli studi Cinecittà di Papigno (quelli di Benigni, che al tempo erano ancora in funzione), per altre scene. Da sceneggiatura, infatti, i tre demoni erano i cattivi principali della storia, di cui la Terza Madre si serve per commettere i suoi orribili crimini: avevamo più scene di tutti, fra cui mangiare un bambino, impalare due donne lesbiche, allattarci al seno della Terza Madre (la modella Moran Atias: ancora rimpiango di non aver girato questa scena…) e altro ancora. La sequenza che girammo a Torino, invece, fu purtroppo la prima e l’ultima: nel film è rimasta, è il primo omicidio, quello di Coralina Cataldi-Tassoni, ma poi i demoni scompaiono senza una ragione. Perché? Perché Dario Argento ci ripensò e non fu più convinto dell’estetica e della funzione dei demoni.

A mio avviso, quel film, disastroso, riflette uno stato di confusione creativa non da poco. Per dire, a un certo punto, sul set, ad Argento venne in mente che il demone, ovvero io, avrebbe potuto strozzare l’archeologa non con le viscere, ma con un pene allungabile: Stivaletti lavorò tutta la notte per realizzare il trucco, che io poi avrei dovuto indossare il giorno dopo. La mattina seguente, invece, Argento ci aveva già ripensato: disse che la censura non gliel’avrebbe mai passato, ma secondo me si rese conto che era o poteva essere alquanto ridicolo. Peccato per me, in ogni caso, perché questa sua decisione non mi ha più portato sul set, dopo quella prima settimana, ma tant’è. Nella scena rimasta, i tre demoni inizialmente di terracotta vengono risvegliati e vivificati da due improvvide archeologhe, mentre di contorno una scimmietta fa le veci della Maligna e porta ulteriore scompiglio. Durante le riprese, la scimmietta si aggrappò pericolosamente ai veri quadri contenuti nella Pinacoteca: si temette il peggio, poi per fortuna tutto andò bene. Per quanto mi riguarda, fui il demone prescelto da Argento per accoltellare l’archeologa, “sbudellarla” e con le viscere strozzarla. Perché proprio io? Credo perché, dei tre attori non protagonisti reclutati, ero quello con più esperienze cinematografiche (gli altri due erano davvero due persone “della strada” improvvisate). Ricordo che Argento girò, per la sequenza dell’omicidio, tanti dettagli e pochi master: scelta che mi incuriosì molto, lì per lì credetti che avesse un montaggio ben preciso in testa, “alla Leone” se vogliamo. Una volta finito il film, tuttavia, visto l’esito, dovetti abbondantemente ricredermi…

Come demone, dovevo tenere tutto il giorno la maschera sulla faccia (ricordo che era molto difficile togliermela anche solo per mangiare) e tutta una imbracatura lungo il busto che mi faceva assomigliare all’omino della Michelin: evidentemente, per Argento, i demoni assiri sono belli pingui! Fisicamente, fu molto faticoso e provante: tornai a casa, con le sudate che mi facevo, dimagrito di cinque chili. Al di là del rendermi conto che il set non era dei migliori, comunque, io mi sono divertito molto. Argento era il primo ad arrivare sul set e l’ultimo a lasciarlo: molto professionale, e molto amato dalla troupe. Quando toccò a me di accoltellare la povera tapina, ricordo che fu messa una colonna sonora metal e che Argento mi caricò dicendo le peggiori volgarità alla donna in questione. L’attrice, che aveva una panciera con un buco in mezzo per la fuoriuscita delle viscere finte, aveva paura che io, non professionsita, le facessi male spingendo troppo con il coltello retrattile; Argento, da dietro, invece mi incitava a più non posso urlandomi di “uccidere quella puttana” e di accoltellarla per bene, con forza. Ero un po’ confuso, ma alla fine, dopo poche prove, ci riuscii. Anche se il dettaglio della mano “demonesca” che entra nella carne della donna alla fine, come più o meno sempre accade nei suoi film com’è noto, è della vera mano di Argento. Sul set, poi, parlando inglese, feci amicizia con i due sceneggiatori americani del film, la coppia artistica e sentimentale Jace Anderson e Adam Gierasch in visita di piacere sul set, e due mesi dopo, a gennaio 2007, ero a casa loro a Los Angeles dato che, nel frattempo, mi ero trovato un lavoretto su un set italo-americano in USA. Loro furono carinissimi a ospitarmi, ma questa poi è tutta un’altra storia…

Progetti futuri in cantiere?

Al momento sto lavorando su alcune sceneggiature per fumetto, sempre di ambito horror, sempre con l’amico illustratore Borg: stiamo infatti pensando ad alcune storie brevi, alcune autoconclusive e altre da raccogliere in un volume più ampio che potrebbe costituire una sorta di seguito ideale del precedente L’abisso è ovunque. Poi, via via, scribacchio sempre qualcosa: racconti, poesie, sceneggiature per cortometraggi, altro ancora. Sto anche lavorando a un’antologia di racconti brevi di ambito scolastico: però una scuola vista da un punto di vista non retorico-standard, come va di moda oggi, ma, al contrario, molto critico se non apocalittico. Del resto, l’ambiente della scuola, soprattutto quello istituzionale adulto, è l’ambiente più horror che io abbia mai visto e vissuto, dal vero.

Hai voglia di salutare i tuoi lettori e quelli di CineAvatar?

Ciao, lettori di CineAvatar, vi ringrazio per la pazienza che avrete dimostrato leggendo questa lunga intervista, e spero di avervi interessato almeno un pochino. Lunga vita al cinema, e in particolare, si spera, al cinema horror!