Abbiamo intervistato il regista e attore Brando Improta, autore della commedia fantasy-sentimentale “Il canto di Natale”. Ecco cosa ci ha raccontato!
Buongiorno Brando. Come e quando nasce la tua grande passione per il cinema?
Buongiorno a voi. Nasce fin da piccolo, credo parta tutto da quando a 6 anni ho visto “La banda degli onesti” con Totò e Peppino De Filippo in televisione. Chiesi a mia madre come mai quelle persone facevano le cose strane che vedevo e lei mi rispose che erano attori, che imitare altre mestieri era il loro lavoro. Così pensai che doveva essere bello fare quel lavoro, come una specie di gioco.
Sei laureato in Scienze della Comunicazione, hai conseguito un’altra laurea, nel 2020, in Cinema, teatro, danza e arti digitali presso la Sapienza in Roma, hai ottenuto un diploma alla scuola di cinema di Napoli in Filmmaking e Recitazione e hai seguito importanti Masterclass. Quanto sono stati importanti i tuoi studi nella tua attività cinematografica, soprattutto agli inizi?
Molto importanti. Sono sempre stato un curioso e da autodidatta ho sempre studiato manuali di regia e sceneggiatura, ma gli studi mi hanno permesso di approcciarmi all’argomento da un punto di vista professionale che mi mancava, e di confrontarmi con persone che volevano fare lo stesso mestiere. Ancora adesso partecipo a Masterclass e Workshop, penso che la curiosità e la voglia di imparare non debbano mai cessare di esserci in questo tipo di lavoro.
Prima di parlare delle tue esperienze dirette di regista dietro la macchina da presa, vorrei porre l’accento sulle tantissime produzioni, anche importanti, dove sei stato solo sceneggiatore, soggettista, segretario di edizione e aiuto regista. Hai un curriculum molto variegato, che denota un certo tipo di gavetta che raramente si trova nelle esperienze professionali dei registi indie italiani…
A me piace molto l’atmosfera di collaborazione che si crea su un progetto. Per questo quando mi propongono di scrivere qualcosa per altri, di revisionare una sceneggiatura, di partecipare ad un set anche come ciakkista accetto subito. E poi conoscere persone nuove, apprendere stili e punti di vista diversi dal mio, fa parte di una formazione che solo con la teoria non si può avere. La gavetta secondo me serve a questo, ad aprire la mente, ad avere metri di paragone sul lavoro che un libro di testo non ti può dare. Ogni esperienza ti lascia qualcosa che poi sicuramente tornerà utile nel creare un tuo progetto.
Non sei solo un regista e sceneggiatore, ma anche un attore. Quali sono le differenze tra il lavorare come attore in un’opera girata da te rispetto ad un’opera girata da altri?
Quando recito per un altro regista sono molto più tranquillo. So che lui mi guiderà e mi lascio plasmare dalla sua visione del progetto. C’è un’altra persona al “comando” e quindi non devo far altro che mettermi al suo servizio e lasciare che conduca le cose a modo suo. Dirigermi da solo è più difficile. Mi chiedo continuamente se una frase sia più giusta detta in un modo o magari in un altro, se potevo fare meglio. Non c’è nessuno a guidare la mia preparazione e quindi devo essere il più possibile critico verso me stesso, che non è sempre facile.
La tue prime esperienze come regista sono avvenute, correggimi se sbaglio, nel 2011, con ben 2 corti, “Liscenute” e “Senza Parole”…
Si, esatto. “Liscenute” era una sorta di documentario. Fui chiamato dal comune di Sant’Arsenio per creare qualcosa che facesse da complemento a un Festival che tenevano lì. C’era una mostra fotografica e poi doveva esserci questo corto che riassumesse l’antica storia del paese. Decisi di farlo a modo mio, innestandoci una piccola storia di finzione. Andò molto bene. E poi feci “Senza parole”, che era un corto completamente di finzione. Credo il primo che abbia mai scritto.
Due anni dopo il tuo primo lungometraggio, “Neverending Summer”. Nel cast c’è anche il grande Patrizio Rispo di “Un posto al sole”!
Si. Avevo passato un po’ di tempo a scrivere per altri e a lavorare su vari set nei modi più disparati. Poi decisi di fare questo lungo. Non era una storia particolare, si trattava di una commedia molto semplice ma c’era un ruolo importante che andava ricoperto da un attore di una certa esperienza. Contattai Patrizio Rispo perché secondo me aveva le giuste qualità per la parte di questo professore bonario, che ha un rapporto amichevole con i suoi ex alunni. A lui piacque molto e così ci ritrovammo insieme in quell’avventura. Ci siamo ritrovati l’anno scorso alla presentazione di un libro scritto da sua moglie e ancora si ricordava con piacere di quell’esperienza.
Tra il 2014 e il 2015 giri altri due lunghi, “La crociata dei buffoni” e “La giornata dei buffoni”. Ce ne puoi parlare?
Quelli sono stati i primi lungometraggi che ho fatto che hanno attirato un pochino di attenzione. Erano un’unica storia, con gli stessi personaggi, e riuscimmo a venderli a svariati cinema e a partecipare a numerosi festival. L’idea del primo era molto particolare. Si narrava di un gruppo di amici che cerca di ritrovare quello che una volta era il loro “leader”, sparito in seguito alla morte accidentale della compagna, per fargli fare da testimone al matrimonio di uno di loro. Per stanarlo impugnavano una vecchia carta che consentiva loro di fare una crociata in nome del Vaticano, portando il cattolicesimo in qualche posto ritenuto isolato dalla parola di Dio. Nel secondo invece i personaggi si ritrovano dopo un anno per l’anniversario del matrimonio raccontato nel primo capitolo. Anche in queste occasioni ho potuto lavorare con due grandi artisti. Nel primo infatti c’era Francesco Paolantoni nei panni di mio padre (e anche lui menziona ancora il film nelle interviste) e nel secondo Clementino alla prima esperienza attoriale.
“L’estate di San Martino”, una commedia dove sei tra i protagonisti: come andò in quell’occasione?
Lo girammo a Sant’Arsenio, dove era stato girato “Liscenute”. Visto che l’esperienza di quel corto era andata bene, con il comune si decise di fare un lungometraggio e io ero tra i protagonisti. Andò un po’ meno bene rispetto al corto, devo ammettere che la sceneggiatura (che avevo scritto io) era pigra, tutta improntata alle risate e con una struttura molto semplice. Però fu divertente tornare là, e in quell’occasione ho conosciuto diversi attori che ho poi integrato nei miei lavori successivi, e che con i quali collaboro ancora oggi.
Nel 2016 è la volta della commedia “Il primo furto non si scorda mai”. Ci puoi raccontare qualcosa di questo film?
Era un film molto particolare. Partiva come una commedia ma poi diventata un vero e proprio action. Doveva essere un omaggio a “I soliti ignoti” con un gruppo di disperati che decide di tentare un colpo per sbarcare il lunario. Poi però nella seconda parte le cose si facevano più serie e tra vari ribaltamenti di situazione finiva in tragedia. Fu molto faticoso girarlo, come attore mi riservai una parte piccola ma che richiedeva una lunga serie di stunt fisici. C’era un combattimento verso la fine, ci mettemmo quasi sei ore per girarlo e alla fine credo non avessi più una sola parte del corpo senza lividi. Non andò molto bene ai festival ma era un approccio a un genere diverso (una scheda su un sito lo riporta addirittura come noir) e penso mi sia servito per sviluppare altri tipi di storie.
Sempre nello stesso anno dirigi “La vita è un girotondo”, film sentimentale con cinque storie d’amore ed un Cupido di mezzo…
Quello era molto carino secondo me. C’era un cast molto bello. Tommaso Primo tra i protagonisti (che oltre a essere un fratello oggi è un cantante indie molto affermato), Francesco Albanese, Mimì De Maio… era il tipo di storia che mi piace dirigere e interpretare di più. Lo scrissi su misura di ogni attore che interpretava gli episodi, ognuno aveva il suo spazio e la possibilità di esprimere il proprio talento. È stata la rara combinazione di un progetto in cui credono tutti, sia nel cast artistico che tecnico. E meno male che fu così perché il 70% del girato andò perduto in un virus che aveva infettato i computer. Ripartimmo con le riprese quasi da capo e devo dire che nessuno si tirò indietro. Riuscimmo a vincere vari premi in quell’occasione e da lì, rivedendolo di recente, ho preso ispirazione per il mio nuovo progetto.
“Il falco e la rondine” invece di cosa parla?
“Il falco e la rondine” è uno dei miei preferiti. Avevo appena finito di girare un film da protagonista, diretto da Alfonso Perugini, e mi stavo disperando perché come ho detto avevo perso durante il montaggio gran parte del girato de “La vita è un girotondo”. Ascoltai una canzone di Gigi D’Alessio che parla di violenza sulle donne, decisi di trarne una sceneggiatura. Chiesi il permesso all’artista che subito fu entusiasta dell’idea. Alcuni mesi dopo lo girammo. È la storia di una ragazza che scappa da un padre padrone, che permette lei subisca ripetutamente abusi dal fratellastro. Lei si nasconde, cambia nome e incontra un uomo diverso, gentile, che le insegna ad apprezzare nuovamente la vita e l’amore quello vero, che non conosce violenze e abusi di alcun tipo.
Hai girato un corto fantasy, “Il disegno dell’illusionista”, che ha girato molto per i festival di settore. Da dove nasce l’idea di base dell’opera?
L’idea di base non fu mia. Mi fu suggerita da un mio amico direttore della fotografia che stava partecipando ad un festival dove tutti i lavori dovevano avere a che fare con la magia e l’illusionismo. Ci pensai un po’ e sviluppai la sceneggiatura. Lo girammo in soli due giorni, ci misi più tempo a imparare i trucchi con le carte che facevo nella prima scena che a girare. Però secondo me il risultato non era malvagio.
“Gioco di ruolo”, un po’ commedia, un po’ thriller, e la testimonianza che spesso ti piace mischiare i generi…
Si, assolutamente. “Gioco di ruolo” è un thriller vecchio stile, girato in bianco e nero con i flashback invece a colori. Ci sono venature da commedia romantica, soprattutto nel rapporto tra i due protagonisti. Ci rifacemmo ai film hollywoodiani degli anni quaranta, dove spesso non c’era una divisione netta dei generi ma piuttosto una commistione, in particolar modo nei dialoghi. Molte scene erano girate usando le stesse inquadrature o le stesse battute di film classici come “Sabotatori”, “Acque del Sud” e via dicendo. E fu costruito sulla volontà di rifare coppia con Roberta Caruso che era stata la protagonista de “Il falco e la rondine” ed è molto brava a gestire interpretazioni che spaziano nei toni.
“Le piccole cose” invece che argomento tratta?
È una sorta di “La vita è un girotondo” 2.0 come stile. Ci sono varie storie, il finire di una dà il via alla successiva fino a tornare al punto di partenza. Tutti i segmenti hanno a che fare con la riscoperta con le piccole cose della vita, i piaceri semplici che spesso tralasciamo inseguendo qualche obiettivo più alto. Ognuno da un punto di vista diverso: c’è la storia d’amore, quella più comica, quella più amara. Lo abbiamo girato nel 2019, portato al cinema, poi trasportato online a causa della chiusura delle sale per la pandemia. Quando è approdato su Internet molte persone hanno sentito il messaggio vicino a quello che stavano vivendo durante il lockdown, che inevitabilmente ci ha portato a riscoprire proprio quelle piccole cose di cui parlavo nel film.
Il 2020 è l’anno di uno dei tuoi lungometraggi più noti, “Il canto di Natale”, ma è stato anche l’anno del Covid-19. Quanto ha influito il virus in negativo nel lavoro del set ed in generale di organizzazione del film?
Ha influito moltissimo nel bene e nel male. Avremmo dovuto girarlo a Marzo, per poter simulare l’inverno con più facilità e invece c’è stato il lockdown. Per sopperire al tempo perso abbiamo allestito un instant movie “L’amore ai tempi del Covid”, che ha avuto una popolarità online enorme e soprattutto mi ha fatto conoscere Adele Vitale che ha sostituito poi quella che doveva essere la protagonista del Canto di Natale (non più disponibile a causa dello slittamento) e con la quale ho instaurato una proficua collaborazione. Abbiamo girato Dickens in pieno agosto vestiti in modo invernale, la sofferenza era grossa. Ma è stata una gioia passare l’estate sul set, perché dopo la chiusura ci ha dato una parvenza, seppur breve, di ritorno alla normalità. Il clima era allegro ed eravamo veramente tutti convinti che le cose stessero migliorando. Invece purtroppo, siamo ancora in piena pandemia…
Quali sono i tuoi film e generi preferiti?
Un genere preferito non credo di averlo. Sono uno spettatore onnivoro, guardo di tutto, anche spaziando dai grandi autori a quelli più misconosciuti. Il mio film preferito in assoluto credo sia “Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo” di Stanley Kramer. L’avrò visto una decina di volte e ancora mi stupisco per come sia fresco da un punto di vista umoristico. Poi ho un debole per la saga di Indiana Jones, e in generale per tutto ciò che riesce a sposare registri diversi.
CineAvatar è un sito di cinema letto da molti appassionati di horror. Quali sono i tuoi film horror preferiti, ed in particolare quelli italiani che ami?
Ho due filoni horror che adoro. Tutto quello che va dalla seconda metà degli anni ’50 alla prima degli anni ’70 ed in particolare le produzioni della Hammer. E poi gli slasher degli anni ’80. Alcuni titoli che riguardo sempre con piacere sono “Il terrore viene dalla pioggia” di Freddie Francis, la saga di Halloween, “Il signore del male” di John Carpenter. Sugli italiani sono più selettivo, mi piace molto ciò che è stato prodotto fino alla fine degli anni novanta, con il nuovo millennio trovo che abbiamo perso un po’ il tocco magico per il genere. Ho una passione particolare per “Phenomena” di Dario Argento (conservo anche la colonna sonora in vinile) e per “Dove comincia la notte” di Maurizio Zaccaro scritto da Pupi Avati.
Cosa ne pensi della situazione attuale del cinema indie italiano?
Probabilmente a causa del Covid è più disastrato che mai. È difficile riuscire a far partire una produzione con tutti i problemi relativi al periodo. Però è anche vero che le grandi produzioni affrontano gli stessi problemi e che alcuni spazi, soprattutto grazie alle piattaforme online, si stanno creando. Vedo spesso molte storie belle, realizzate anche bene ma che anno hanno ricevuto poca attenzione e pochi riconoscimenti. Credo che dovrebbe stare nel pubblico la volontà di cominciare a rifiutare i prodotti diretti e interpretati sempre dalle stesse persone e capire che c’è un mondo di idee originalissime che va ancora valutato come merita.
Progetti cinematografici futuri?
Preso da un’assoluta follia ho scritto e da poco iniziato a girare una serie musical con protagonista ancora Adele Vitale e una schiera infinita di cantautori e musicisti che sta lavorando ai brani dei vari episodi: da Paolo Maccaro (fratello di Clementino) a Maurizio Capone, da Fabiana Martone ad Alessandra Tumolillo, giusto per dirne alcuni. Parla di Serenella, una ragazza timida e con vari problemi economici e familiari, che si rifugia nel sogno di un amore impossibile per sfuggire alla realtà. Scenderà dal cielo in suo aiuto Cupido ma finirà per innamorarsi lui della ragazza. Il titolo lo ha suggerito Zulu, il frontman dei 99 Posse, e sarà semplicemente “Serenè”. Sono 10 episodi, spero venga bene, io e Adele ce la stiamo mettendo tutta, lei sta anche collaborando attivamente alle idee e alle coreografie e così stiamo ottenendo il meglio dalla fusione delle nostre esperienze passate.
Finito con questo mio progetto sarò solo interprete per due cortometraggi dell’orrore. Sarà la prima volta che mi cimento nel genere.
Hai voglia di salutare i tuoi fan e i lettori di CineAvatar?
Saluto tutti con un augurio. Che presto si possa tornare tranquillamente a riempire le strade, le piazze e i luoghi d’aggregazione come i cinema. A me personalmente manca abbracciare le persone e quindi se non il 2021, che almeno il 2022 possa essere un anno pieno di abbracci e pieno di film visti finalmente al buio di una sala.