Il personaggio più celebre della scrittrice inglese Mary Shelley ringiovanisce dietro le fattezze di James McAvoy, si ricopre di una briosa veste steampunk e, introdotto al grande pubblico dalle parole del fidato assistente Igor, irrompe senza remore nel mondo dei blockbuster.
A poche settimane di distanza dall’uscita nelle sale della moderna e indipendente trasposizione del romanzo originale ad opera di Bernard Rose, Victor Frankenstein, l’uomo dietro l’iconica creatura nata dalla morte, si concede a un fine di mero intrattenimento, pur non mancando di rispolverare le sue tradizionali provocazioni di stampo filosofico e teologico ma, anzi, volendo aprire anche un leggero spiraglio di riflessione su un inedito e personale dramma interiore.
Paul McGuigan (Push, Slevin-Patto Criminale), regista scozzese fautore del successo delle migliori puntate di Sherlock della BBC, ripesca alcuni interpreti dal cast della popolare serie tv con Benedict Cumberbatch e li piazza in sordina nei ritagli di tempo durante lo svolgimento degli esperimenti dei due scienziati protagonisti. Volto televisivo del genio del crimine Moriarty, lo stralunato Andrew Scott cambia sponda e indossa i panni di un inappuntabile ispettore di Scotland Yard che, portavoce di una visione del mondo guidata dalla fede in un postumo giudizio universale, si contrappone alla mentalità di Frankenstein che fieramente sublima l’Uomo quale creatore di vita al pari dell’Onnipotente. Purtroppo quello che, al cuore della pellicola di McGuigan, avrebbe dovuto rappresentare un interessante scontro/confronto tematico resta galleggiante in superficie, ridotto a un rapido scambio di frecciatine di natura infantile.
McAvoy si dimostra ancora una volta uno degli attori più energici della propria generazione e la sua interpretazione, talora fastidiosamente sopra le righe, sembra voler rievocare, priva della stessa efficacia, quella assai più accattivante di Robert Downey Jr. nel dittico di Sherlock Holmes firmato da Guy Ritchie. Al suo fianco, l’Igor Strausman di Daniel Radcliffe, il gobbo che gobbo non è, poteva esprimere un punto di vista ideale a raccontare la discontinua intimità di una figura entrata nel mito ma risulta incapace di persuadere lo spettatore con la sua drammaticità. L’ex-studente di Hogwarts non ha la forza, infatti, di emergere dal semplice ruolo di spalla, seppur dall’eccezionale intelligenza e in grado di formulare diagnosi mediche con la prontezza surreale di un supereroe.
La sceneggiatura del figlio d’arte Max Landis, reduce dall’ottimo Chronicle, non manca certo di focalizzarsi sul singolare e mutevole rapporto che lega i due uomini ma la sensazione generale è che l’intento sia soprattutto quello d’intrattenere ad ogni costo. Complice il netto ritardo del pathos emotivo, posto nel momento in cui lo sviluppo della storia si fa ben noto, il tentativo di presentarci Victor Frankenstein in qualità di seducente icona gotica riemersa dal passato riesce inevitabilmente solo in parte, portando in auge un adattamento che richiedeva certamente maggior coraggio, intraprendenza e voglia di osare di più. Frammentario.
Giulio Burini
Recensione pubblicata anche su MaSeDomani.com