RECENSIONE DI THE HATEFUL EIGHT,
L’OTTAVO FILM DI QUENTIN TARANTINO

“La qualità principale del genio non è la perfezione ma l’originalità, l’apertura di nuovi confini.”
Le parole di Arthur Koestler, scrittore ungherese naturalizzato britannico, sembrano più che mai significative per descrivere il talento di un regista che ha illuminato, influenzato e riformato il cinema contemporaneo: Quentin Tarantino. Un artista rivoluzionario, eclettico, d’altri tempi, in perenne controtendenza con le logiche di un sistema ormai propenso ad abbandonare la tradizione – e la materialità dei supporti – per sposare la tecnologia e le sue infinite possibilità. Un moderno avanguardista con la passione per il cinema che sfocia nel fanatismo più totale quando si parla di genere.

the hateful eight recensione
Photo: courtesy of 01Disribution

La settima arte è nata in pellicola e così ha continuato a svilupparsi sin dalle prime sperimentazioni agli inizi del ‘900, periodo in cui i neofiti cineasti, veri e propri mestieranti factotum, impressionavano le immagini su celluloide per poi svilupparle manualmente e legarle in sequenze di fotogrammi da proiettare sul grande schermo. Il resto, come sappiamo, è storia. Storia che nel tempo è stata scritta e riscritta ed ora si presenta a bordo di una diligenza, l’ultima di una lunga fila diretta a Red Rock, il cui destino passa attraverso l’effige di un crocifisso imbiancato dalla neve che si erige lungo la strada.

È questo l’affresco iniziale dipinto da Quentin Tarantino in The Hateful Eight, un quadro che sembra uscito dalle tele del pittore Pieter Bruguel “Il Vecchio”, che magnetizza lo sguardo degli spettatori e cattura con un’ampia panoramica l’arrivo in lontananza dei protagonisti, sulle note trepidanti del maestro Ennio Morricone (autore di una monumentale colonna sonora).

Photo: courtesy of 01Disribution
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Come un’opera teatrale divisa in due atti con tanto di ouverture e intervallo, Tarantino firma con la sua ottava fatica un patto di profonda devozione e fiducia con il pubblico, guidandolo in un viaggio attraverso i generi e le sue sfumature. Il risultato è un magnifico gioco al massacro dove l’odioso ottetto protagonista rappresenta la metafora di una civiltà piegata dalle diversità, dalle contrapposizioni sociali e dalle discriminazioni razziali (nord e sud, bianchi e neri, uomini e donne). Paranoie sessiste e lotte intestine vengono fomentate con incalzante senso del ritmo da parte del regista, che mette in scena una parabola grand guignolesca in cui l’intreccio tipico del thriller si lega alle ambientazioni western per poi sfociare in un finale horror a tinte rosso sangue. Fiumi di emoglobina scorrono inesorabili tra le crepe del pavimento dell’emporio di Minnie, dove il cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell) è costretto a rifugiarsi insieme alla sua prigioniera Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh) e a due viandanti, Marquis Warren (Samuel L. Jackson) e il nuovo sindaco di Red Rock Chris Mannix (Walton Goggins), incontrati casualmente durante il tragitto verso la cittadina di frontiera. Nella locanda incontrano quattro forestieri con cui sono obbligati a trascorrere la notte per riparasi dalla bufera di neve: il boia Oswaldo Mombray (Tim Roth), il messicano Bob (Demian Bichir), il mandriano Joe Gage (Michael Madsen) e il generale Sanford Smithers (Bruce Dern).

Ricalcando i meccanismi de Le Iene e i risvolti topici de La Cosa di John Carpenter (che a sua volta ispirò Le Iene) sullo sfondo della Guerra Civile Americana appena conclusa, il film è sorretto da una sceneggiatura, firmata come di consueto da Tarantino, che segue una metrica impeccabile e concede libertà d’espressione agli attori, strizzando l’occhio ai gialli classici di Agatha Christie (Dieci Piccoli Indiani, Trappola per Topi) e all’estetica dei western italiani come l’innevato Il Grande Silenzio di Sergio Corbucci e l’ermetico Prega il Morto e Ammazza il Vivo di Giuseppe Vari (entrambi con un mefistofelico Klaus Kinski), le cui situazioni da cinema Kammerspiel – letteralmente “recitazione da camera” – mostrano non poche analogie con The Hateful Eight.

Photo: courtesy of 01Disribution
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Il concetto di spazio è, infatti, emblematico nelle produzioni di Tarantino: l’idea di spostare il baricentro dell’azione dalla cornice esterna del freddo Wyoming alle mura claustrofobiche dell’insidiosa “bottega degli orrori“, all’interno del quale calare un collettivo di personaggi eterogenei e contrapposti, trova giustificazione in uno schema ben preciso, atto a fomentare la tensione e a scoprire inevitabilmente le carte in tavola. Grazie alla conduzione del maggiore Warren, interpretato splendidamente da Samuel L. Jackson, viene praticata una violentissima seduta psicologica nella quale lo scopo primario è quello di portare allo stremo i conviviali, trascinati sull’orlo di uno sfinimento mentale che funge da detonatore per il prosieguo brutale della storia. Con il glorioso Ulta Panavision 70 Tarantino ha voluto imprimere alla pellicola un carattere maestoso ed imponente, puntando sul rispolvero di un formato che non nasconde le sue imperfezioni ma le palesa con totale fierezza e spontaneità. Ed è proprio dietro questa devianza dalla perfezione che si cela la figura di un genio come Quentin Tarantino, fautore di una propria dottrina stilistica (e dei suoi seguaci, i tarantiniani) nonché umile esponente dell’arte che sente il bisogno risorgente di condividere le sue emozioni con il pubblico e lasciarsi trasportare con loro in quel fantastico universo chiamato cinema. The Hateful Eight è la sua ottava meraviglia, un nuovo testamento racchiuso in un capolavoro. Chapeau Quentin!

Andrea Rurali
Recensione pubblicata anche su MaSeDomani.com

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(Click sulla locandina per vedere il trailer ufficiale)
Photo: courtesy of 01 Distribution
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