Chi l’avrebbe mai detto di vedere nel 2015 un cannibal-movie sul grande schermo?
Le ultime vere incursioni ‘made in Italy’ nel panorama ‘antropofago’, iniziato da Umberto Lenzi nel 1972 con Il Paese del Sesso Selvaggio, risalgono al 2003, anno in cui Bruno Mattei, con il doppio pseudonimo di Martin Miller e Vincent Dawn firmò due film cannibalici, in primis Nella Terra dei Cannibali e poi Mondo Cannibale, che furono girati contemporaneamente ed uscirono direttamente in home video senza mai ottenere il meritevole ‘onore di un passaggio al cinema. Pensati come unico lungometraggio e poi divisi in due parti grazie al massiccio utilizzo del footage avanzato, gli esperimenti di Mattei vennero fortemente influenzati dalla pietra miliare del genere ‘cannibale’, il Cannibal Holocaust di Monsieur Cannibal (ribattezzato così dai francesi) Ruggero Deodato, film considerato poi negli anni come emblema più macabro e violento mai realizzato nella storia della settima arte.
Dal 2003 ad oggi, in pochi hanno avuto il coraggio e la sfrontatezza di cimentarsi in un filone così estremo e raccapricciante. Una grande fetta di registi sono stati frenati dall’esplorare un mondo così estremo del quale Cannibal Holocaust ne aveva tracciato i limiti che, precauzionalmente o volutamente, nessuno aveva mai osato valicare. Tutti tranne uno. Tutti tranne quell’impadivo e impudente genio di Eli Roth.
Non è una sorpresa che un artista talentuoso e sconfinato del calibro di Roth, cresciuto ‘cibandosi’ perlopiù di pane e cinema bis italiano, abbia sentito l’esigenza viscerale di rendere estrinseca una passione totale per un’epoca produttiva, quella tra gli anni ’60 e ’80, costellata da straordinarie inventive, intuizioni ingegnose ed inedite esplorazioni tecniche da parte dei grandi registi italici che erano maestri nel confezionare i propri lavori avvalendosi di piccoli budget economici e talvolta ultra circoscritti. L’operazione del filmmaker americano, già iniziata con Cabin Fever e proseguita con Hostel, è un testamento affettivo e celebrativo al cannibalismo cinematografico, una rivisitazione moderna ed impattante del genere che, senza mezzi termini o sottili misure, corre dritto ai punti cruciali, ai pathos narrativi delle pratiche sadiche e virulente degli indigeni, attraverso interventi tutt’altro che ortodossi e approfondimenti chirurgici che testimoniano una concupiscenza della carne, totalmente rivolta alla voluttà e al piacere da parte dei seviziatori di assaporarne il gusto. Una predilezione primitiva, naturale, ancestrale per la tribù di aborigeni peruviani che si trova, improvvisamente, con le gabbie piene di prede succulente, prelibate e soprattutto umane. Le vittime in questione, un gruppo di giovani ed ingenui attivisti (pacifisti) giunti in Amazonia per manifestare il loro dissenso contro il disboscamento ‘illegale’ della foresta e la distruzione dell’ambiente, sono miracolosamente sopravvissute ad un incidente aereo. Il loro sollievo dopo aver superato la peggio diventa ben presto un lontano miraggio: la foresta verde è un luogo misterioso che cela imprevedibili insidie, agguati, intrighi e imboscate ‘tribali’.
La dedica dell’allievo Roth al maestro Deodato, pioniere del cruento filone che intraprese negli anni ’80 una strada mirata a denunciare il sistema dei mass media e la società dell’epoca, è un fattore significativo da non sottovalutare. Sebbene The Green Inferno attinga prevalentemente, a livello scenico ed estetico, da un altra opera nota ai cultori onnivori del genere, il sadico Cannibal Ferox di Umberto Lenzi, è dall’Olocausto deodatiano che Roth assimila gli aspetti più sedimentari, stratificati e concettuali che vanno ben oltre la retorica o il linguaggio ‘colorito’ dei dialoghi (all’apparenza ridicoli). Il film è l’evoluzione naturale di Cannibal Holocaust,; il prode Eli osserva il presente e i suoi meccanismi, guardando con attenzione al macrocosmo dei giovani americani, di anime infauste ridotte alla dipendenza più sfrenata dalla tecnologia, da internet e dai social per riuscire a comunicare. La tv, il tubo catodico di Deodato è diventato ora uno smartphone ultra moderno che registra video e li trasmette in live streaming in rete, strumento sapientemente usato nel film per arrestare l’offensiva dei signori della guerra, portandoli a cessare il fuoco contro le popolazioni indigene che vivono nella foresta.
La lezione è stata pienamente assorbita e replicata dal regista di Newton che, senza paura, ha cercato di coniugare tradizione e originalità insieme, riuscendo nell’intento. Le scene raccapriccianti disumane sono tutt’altro che gratuite; è la legge del taglione che punisce le azioni dei ragazzi, i quali pagheranno severamente la loro inconsapevole sfrontatezza e la brama di notorietà, come se la ‘causa ambientale’ fosse solo un mezzo per diventare famosi agli occhi del mondo, a prescindere dalla reale importanza del loro ineffabile gesto. Un errore imperdonabile che EliRoth sfrutta meticolosamente come veicolo per motivare l’efferatezza della carneficina. Il rito di macellazione sulla pietra sacrale del più opulento dei protagonisti è da vero serial killer del pro-filmico, autentico nella costruzione enfatica dei punti cruciali: squarci netti ed impietosi, dissezioni interne e antipasti organici anticipano la cottura a fuoco lento dei corpi mutilati che, con rigore e criterio vengono conditi e messi in forno dai divoratori di carne.
The Green Inferno, vietato ai minori di 18 anni, non verrà per ovvie ragioni riconosciuto come capolavoro universale del cinema, ma nell’era degli anni ’10 si conferma senza dubbio un diamante ‘rosso’ del gore moderno, un brillante e puritano omaggio ad un genere che, come tale, va rispettato e non denigrato. È una pellicola per palati fini, non per tutti, poiché sarebbe troppo scontato etichettarla come sporcizia cinematografica senza conoscere o aver visto i film cannibalici del passato. La sostanza e il coraggio di Eli Roth lo porteranno sicuramente a consolidare la sua ‘scomoda’ posizione nel panorama del cinema contemporaneo, incoronandolo come Garçon Cannibal del XXI secolo.