
Si fa un gran parlare della condizione del cinema contemporaneo. I commentatori si dividono spesso tra gli apocalittici, i cantori della fine del cinema, e i nostalgici secondo i quali, ogni prodotto visto in sala, non può eguagliare i classici del passato. Gli altri, la maggioranza silenziosa, a cui appartiene una buona fetta di pubblico, prendono il cinema volta per volta, film per film, con cauto ottimismo e con un sano gusto della scoperta. Questi ultimi non hanno però, dalla loro, l’eco mediatico sufficiente per emergere nel rumore di fondo dei ragionamenti da social media.
Con Terrence Malick e in particolare con Song to Song, si è perso di vista il gusto dell’analisi critica. Il metro di giudizio adottato per valutare l’opera del cineasta texano sembra essersi diviso in una dicotomica alternativa tra il fantozziano “cagata pazzesca” e l’esaltazione a capolavoro assoluto (con quel giudizio un po’ snob di chi accusa il pubblico di “non capire”). Ci si diverte molto, non c’è che dire, a commentare, a entrare i drammi o le estasi che la visione può comportare. Questa usanza ormai popolare tra gli avvezzi di cinema, che sembra all’origine di una guerra civile teatrale e farlocca quanto rumorosa, ammazza l’esercizio della ragione e il lavoro critico.
Quello che non si dice è che, il giudizio nei confronti di Song to Song, così come del Malick post The Tree of Life, è quanto mai soggettivo e legato ad un cocktail di aspettative, condizioni emotive pre-visione, e predisposizione ad una fruizione lenta. Non ci sono mezze misure, questo è vero, è un cinema da prendere o lasciare ma indubbiamente capace di suscitare emozioni nettissime (anche il disprezzo è un sentimento) e di porsi al centro del dibattito sulla settima arte.

Song to Song è, innanzitutto un film di rottura. In un’epoca ritmata dai sequel, dall’estetica uniforme e priva di autorialità, Malick riesce ancora una volta a fare un film totalmente personale, pienamente originale (tranne che nei confronti di sé stesso) e inafferrabile. Da The Tree of Life, la filmografia di Malick si è, letteralmente, diramata in una tetralogia sull’essenza dell’uomo. Il regista si pone come un documentarista dell’umanità. Egli sembra raccontare ad una razza distante dalla nostra, forse aliena, i moti d’animo degli abitanti della terra. Lo stile fluido delle riprese, ancora il punto di vista ad una corrente immateriale, che circonda i protagonisti girandoli intorno, avvicinandosi e ritraendosi, come sballottato da un mare in tempesta. Malick taglia dalla trama qualsiasi elemento lineare, riduce al minimo l’aspetto narrativo, per proporre una rappresentazione visiva del flusso di coscienza. Tutto inizia da una constatazione sull’amore, sulla fiamma della vita, da parte di Faye (Rooney Mara). Quello che segue è una sorta di libero pensiero filmico, che balza nello spazio e nel tempo. Tutto viene mostrato, nulla viene detto. I pensieri, spesso rappresentati come frasi lapidarie del voice over, non sono la chiave di lettura bensì la fiamma che attiva il viaggio psichico. La fotografia di Emmanuel Lubezki, si sofferma sui piccoli dettagli della messa in scena (i piccoli tic, i gesti spontanei come toccarsi i capelli o il grattarsi) per trasmettere una sensazione di autenticità difficilmente ritrovatile su altri set.
Al centro della storia sono le vite di due musicisti e un produttore. I personaggi assomigliano più a tipi umani, che a caratteri scenici, servono come attivatori dell’amore e delle sue distorsioni. Song to Song prende le mosse dall’amore sessuale, disperato e male indirizzato, per passare poi a quello autentico, ma difficilmente riconoscibile. L’amore dell’uomo per l’altro e per sé stesso è origine dell’egoismo e della pietà così come del perdono e della fratellanza. Di canzone in canzone, di anima in anima, la festa della vita si fa amara proprio nel momento di massimo successo. La semplicità dell’esistenza, le piccolezze della quotidianità sono promotori di una bellezza assoluta, sciolta da qualsiasi legame e dalle ragioni.
