Roma 2015: PAN – VIAGGIO SULL’ISOLA CHE NON C’E’ di Joe Wright, la recensione

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“Fai un pensiero felice!”
Per chi non si ricorda la storia originale del Peter Pan di J.M. Barrie, la felicità è quell’ingrediente fondamentale che, unito alla preziosa polvere di fata, permette di librarsi in aria. Ed è ciò che questo sentimento fa “metaforicamente” anche nella realtà. Non è un caso, quindi, che il giovane Peter sia tra i pochi esseri umani (inizialmente l’unico) a saper padroneggiare la tecnica del volo, data la sua innata propensione a guardare alla vita in modo positivo e con aria di sfida, senza mai abbattersi e stringendo a sé il prezioso e lontano ricordo della madre.
Il destino, come ben sappiamo, lo condurrà alla magica Isola Che Non C’è, tra spietati pirati, agguerrite tribù d’indiani, ammalianti sirene e fatine delle dimensioni di un dito mignolo. La nuova opera del regista inglese Joe Wright (Anna Karenina, Espiazione) rielabora le origini di Peter Pan (differenti rispetto a quelle descritte da Barrie in “Peter Pan nei Giardini di Kensington”) e ci mostra un’isola più giovane, dove tutti i personaggi che conosciamo e amiamo hanno qualche anno in meno e i loro ruoli e rapporti sono ben diversi da quelli che li hanno resi famosi. Da un punto di vista strettamente visivo, Pan-Viaggio sull’Isola che Non C’è (così come il precedente Peter Pan di P.J. Hogan, datato 2003) deve molto all’immaginario (scenari e costumi) di Hook-Capitan Uncino (1991) di Steven Spielberg, eppure Wright, non nascondendo ancora una volta il suo amore per il teatro e prediligendo sempre più una messa in scena in bilico tra realismo e palcoscenico, non manca di arricchire il tutto con trovate affascinanti e personalissime.
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Pan-Viaggio sull’Isola che Non C’è è un film che non nasconde il proprio indirizzo a un pubblico di più piccoli: il linguaggio utilizzato è quanto di più semplice e superficiale si possa immaginare e, attraverso uno sviluppo lineare che non cela alcun tipo di intreccio o mistero, ogni cosa viene resa chiara all’eccesso e senza il bisogno di chiedersi il come e il perché di molti elementi narrativi. Può infastidire, ad esempio, il continuo ammiccare a fatti che non sono ancora avvenuti, unicamente per rendere inequivocabile il futuro ruolo di ogni personaggio (es. James Hook che, al sentir parlare di coccodrilli, d’istinto ritrae la sua mano, quasi a metterla in salvo). L’insieme di queste caratteristiche rappresenta, al tempo stesso, il pregio e il difetto più grande del film: da un lato Pan si presenta come un prodotto per famiglie ideale, genuino, avventuroso e di facile comprensione, mentre dall’altro potrebbe finire con il deludere l’amante di vecchia data, speranzoso che la storia del “ragazzo che non voleva crescere” potesse essere affrontata in modo inedito e approfondito. Ma, alla fine, è proprio questo il tema centrale della storia di Peter Pan: conservare parte del bambino che è in noi e non dimenticare come guardare al mondo con meraviglia e curiosità. Di conseguenza, forse è giusto che i film tratti dagli scritti di Barrie non crescano nel tempo, così come il loro giovane protagonista.
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