Pelikanblut (Pelican Blood), la recensione del film di Katrin Gebbe

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Cosa è disposta a fare una madre per i propri figli? Questa sembra essere la domanda alla base dell’opera di Katrin Gebbe, presentata nella sezione Orizzonti di Venezia 76.
Wiebke è una donna che vive con la figlia adottiva Nikolina in una Germania rurale. Insieme a lei si occupa del maneggio di cui è proprietaria. La loro vita sembra serena, equilibrata, ma la loro routine e il loro rapporto, tuttavia, cambiano bruscamente all’arrivo di Raya, la bambina che Wiebke ha appena adottato. Se l’incontro iniziale con Raya appare essere il compimento, la realizzazione di una famiglia felice, presto Wiebke e Nikolina si rendono conto che Raya è una bambina con un passato troppo difficile, i cui traumi le impediscono di vivere una vita sociale tipica.
Il film procede su due parallelismi, che si fanno metafora e simbolo del rapporto di Wiebke con Raya: il primo con l’addestramento di un cavallo difficile di nome Top Gun; il secondo con il quadro raffigurante una madre Pellicano che offre il proprio sangue ai suoi due figli nell’istituto bulgaro dove Wiebke incontra e adotta Raya.
La prima analogia appare molto chiara, rappresenta la risolutezza della protagonista e la convinzione che non esistano cavalli difficili (quindi, stando al parallelismo, anche Raya non è difficile di per sé), ma soluzioni complesse per comprenderli (così Raya potrebbe essere salvata, se ben compresa). Il dottore stesso conferma a Wiebke che Raya non è malata, è semplicemente diversa, tanto che la società non sarebbe disposta a comprenderla (da qui il senso di sfida che scatta nella determinata Wiebke).
Il quadro è il simbolo, invece, del sacrificio di una madre per i propri figli e risponde alla domanda di partenza. Una madre è disposta anche a sacrificarsi al fine di salvare i propri bambini.
Pelikanblut non appartiene a un genere preciso, se all’inizio può sembrare drammatico/sentimentale, nello svolgimento si tinge di colori dark, arrivando poi a mostrare alcune scene thriller e, addirittura, horror. Forse l’errore del film consiste nell’affidarsi eccessivamente a questo particolare senso di horror sovrannaturale, che poco si addice al realismo che lo caratterizza inizialmente. Il film, infatti, è diviso in due interpretazioni del trauma di Raya: quella scientifica del dottore e quella magico-irrazionale di Tanka, quasi una sorta di sciamano. La seconda prende decisamente il sopravvento e trascina il film in un vortice di perversione e follia.
Nonostante sia interessante dal punto di vista emotivo e psicologico, Pelikanblut non convince particolarmente nella scrittura e nel finale a tinte paranormali che stravolge completamente il significato del film.
Teresa Paolucci