PAPILLON, la recensione del remake con Charlie Hunnam e Rami Malek

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Charlie Hunnam e Rami Malek nel remake di Papillon
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Charlie Hunnam e Rami Malek nel remake di Papillon
Il remake di un importante classico della storia del cinema è sempre un argomento spigoloso.
Spesso i rifacimenti riescono ad entusiasmare al pari degli “originali”, contribuiscono ad arricchire un universo discorsivo già noto conferendogli sfumature e chiavi di lettura inedite, ripropongono grandi storie e grandi personaggi ancorandoli all’attualità.
Ebbene, nulla di tutto ciò accade nel Papillon del danese Michael Noer, nuova versione dell’omonimo film cult di Franklin J. Schaffner del 1973. Talvolta il paragone tra due opere lontane negli anni, che attingono alla medesima fonte (in questo caso l’autobiografico romanzo di Henri Charrière), è inopportuno e serve solo a ribadire la tediosa retorica per cui “l’originale è sempre meglio del rifacimento”. In questo caso però non si può ignorare completamente il tema: fatta eccezione per un incipit e un epilogo originali (dai quali peraltro la narrazione non guadagna nulla né in termini informativi né tantomeno di pathos), si tratta sostanzialmente di un remake shot-for-shot, al punto che quasi tutte le sequenze e le battute ricalcano precisamente quelle del film di Schaffner. Anche i due protagonisti, Charlie Hunnam (Hooligans, Pacific Rim, King Arthur – Il potere della spada) nei panni di Henri “Papillon” Charrière e Rami Malek (alla ribalta con il ruolo di Elliot Alderson in Mr. Robot) in quelli del falsario Louis Dega, più che a offrire un’interpretazione autentica sembrano interessati ad imitare le movenze e gli stati d’animo che avevano reso formidabile la coppia formata da Steve McQueen e Dustin Hoffman nella pellicola del ’73.
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Charlie Hunnam e Rami Malek nel remake di Papillon
Il risultato di un’operazione tanto rischiosa nelle intenzioni quanto convenzionale nella forma è un film con poca anima, in cui i concetti di amicizia, solitudine, prigionia del corpo e dello spirito, volontà di stare a galla anche quando tutto sembra perduto, restano semplicemente parole, senza tradursi nell’efficacia delle immagini.
Certo, la storia è di per sé avvincente, il tema della crudeltà della vita carceraria è sempre attuale e le sequenze di fuga sono ben costruite, ma convincono poco l’atmosfera patinata in cui il film è immerso e l’assenza di un realismo (anche fotografico) che pareva condizione necessaria e invece lascia il passo ad una “pulizia” artificiosa, priva di sbavature.
L’intrattenimento, per quanto effimero, è comunque assicurato e non mancano momenti di coinvolgimento, ma era lecito aspettarsi di più da un team e soprattutto da un regista che sembra sul trampolino di lancio e aveva conseguito finora risultati assai notevoli.