Se negli anni il cinema ci ha abituato ad adattamenti largamente diseguali – per qualità e per dimensione di schermo – di un’opera capitale come Frankenstein, figurarsi la difficoltà di strutturare una narrazione per immagini di una vita ricca di zone d’ombra, tormentata e irripetibile, qual è quella dell’autrice del “Moderno Prometeo”, Mary Wollstonecraft Godwin, moglie di Percy Shelley. Parevano già velleitari, sul finire degli anni ‘80, progetti del calibro di Gothic (1986), pure col (discutibile) rinforzo di un visionario come Ken Russell; per non parlare del romantico L’estate stregata (1988), per la cui regia Ivan Passer si mise al servizio di casa Cannon (e non occorre dire altro). La lezione che se ne trae, ancora oggi valida e banale al contempo, è che a romanzare il romanzabile – laddove cioè si abbia ampio spazio di manovra inventando di sana pianta dettagli che cesellino una storia pur vera ma abbastanza lontana nel tempo per non avere un profilo netto (o non averlo affatto) – è semplicissimo cadere in fallo: anzi, è quasi una certezza.
Mary Shelley di Haifaa Al-Mansour, primo film “mainstream” in lingua inglese di questa regista promettente (già autrice de La bicicletta verde, al lavoro per un prossimo film Netflix attualmente in post-produzione), purtroppo, non fa eccezione. Impostato come un teen drama melenso e – prevedibilmente – senza un barlume di spessore, confonde con generosità il concetto, già di per sé genericamente espresso, di romanticismo gotico con quello di un sentimentalismo tetro, utilizzando tanto per cominciare una vita illustre e difficile come pretesto per una storia tanto ricamata quanto patetica; e poi il mezzo letterario per proporre una edificante morale sulla affermazione di sé fra mille difficoltà dettate dal tempo, o anche sul superamento di pregiudizi (e di tendenze conservatrici) ancora oggi decisamente attuali: per esempio, come una donna che dimostra un talento e una creatività senza pari non si veda attestato, se non difficoltosamente o tardivamente, nessun merito.
Sarebbe questo l’aspetto più interessante della vicenda, e a questo proposito non è difficile immaginare come la regista, prima donna in Arabia Saudita a emergere in questo ruolo, senza troppa difficoltà, possa identificarsi nel personaggio (veritiero o idealizzato) della Shelley: lo è a sufficienza da voler essere co-sceneggiatrice del film. Peccato però che una tale cruciale virata di concetto arrivi soltanto nella coda di una narrazione concentrata quasi esclusivamente su facezie: bisticci di coppia, ardente passione a fasi alterne, drammi intimi e scenate plateali, in una girandola di situazioni un po’ puerili e di scarsissima attendibilità. Una buona dose di semplicismo (negli affetti, nei gesti, nei patemi d’animo) appiattisce tutto l’impianto e qualsiasi elevazione, e fa di Mary Shelley uno spettro senza caratura (a poco vale l’interpretazione a buon diritto giovanile di Elle Fanning, graziosa ma algida). E la sua storia diviene, di conseguenza svuotato, un indifferente raccontino d’amore intriso di cliché: un romanticismo popolato da belli e dannati, un certo fascino tenebroso e languido (così è anche il Percy Shelley interpretato da Douglas Booth) ad uso e consumo di quelle giovani(ssime) menti che, se non intimorite da elementi letterari in verità decisamente impotenti, nemmeno sono interessate a essere sollecitate, stupite o, semplicemente, realmente coinvolte. Proprio questo porta, alla fine, a un interrogativo: quale sia, a conti fatti, il pubblico del film. Laddove uno particolarmente maturo (d’età e, direi, anche di istruzione) certamente nella maggioranza dei casi rifugge da una storia di questo calibro, perché la percepisce inattendibile anche soltanto attraverso i materiali promozionali. Ma anche un pubblico giovane e illuso può, poi ingannandosi, provare una certa diffidenza verso una storia in costume che, quantomeno sulla carta e pur tradendola, tira in ballo gli elementi di una letterarietà istituzionale.