Secondo Pascal Bruckner, scrittore e saggista francese, “la capacità di entusiasmarsi è in via d’estinzione”. Forse avrà anche ragione, ma secondo alcuni la capacità di entusiasmarsi esiste. Ed esiste eccome. Ad offrircela, con un getto di adrenalina che scorre dritto nelle vene è un Gotha venuto dall’Australia. Il suo nome è George Miller, regista classe 1945, che torna al cinema con una carica di energia ed entusiasmo, percepibile sin dal primo fotogramma della sua ultima fatica Mad Max: Fury Road. Urliamolo ad alta voce, senza invocare gratuitamente il divino, il film è un Capolavoro, con la C maiuscola. Nel concetto più multiforme del termine, perché Mad Max arriva in un momento storico e in un panorama cinematografico che negli ultimi anni ha visto imperversare, con un certo successo al botteghino, i fenomeni mondiali di Hunger Games e dei suoi derivati, come i nuovi testimonial di un genere di riferimento, quello della fantascienza post-apocalittica.
Ebbene, l’evento-avvento del quarto episodio della saga dedicata all’uomo senza nome, Max Rockatansky (che ha lo stesso pseudonimo del personaggio di Clint Eastwood nella Trilogia del Dollaro di Sergio Leone), cambia le carte in tavola e spazza via tutto, anche quelle pellicole che, nonostante l’aderenza al filone, avranno la presunzione di appartenervici. Miller si supera in modo magistrale e confeziona un film demagogico, una bibbia completa e complessiva, che non vuole essere propriamente un sequel se non per l’attinenza ad una serie, bensì un riavvio, un reboot, che assorbe la materia coniata alla fine degli anni ’70 con Interceptor e i film successivi (Interceptor – Il Guerriero della Strada e Mad Max – Oltre la sfera del tuono), tingendole di originalità e innovazione. Addirittura oltrepassandole con uno sguardo lungimirante verso il nuovo orizzonte dell’intrattenimento commerciale e dello stesso franchise. Fury Road trascende il concetto di pura opera estetica, visionaria e mitologica, e proclama il suo messaggio di vigorosa querela sociale. È un film politico, figlio di una contemporaneità nella quale non c’è distinzione tra ciò che teorizzava George Orwell nel suo profetico 1984 e quello che realmente accade oggi. E Miller lo sa bene. L’occhio onnipresente (anche se chiuso) del Grande Fratello, che ci osserva e ci pilota, è quello dell’impero di Immortan Joe, tiranno taurino ‘dell’ammirazione’ interpretato da Hugh Keays-Byrne. È un dittatore che tiene in pugno il popolo con il possesso di riserve di acqua-cola e si accoppia con le sue cinque mogli per dare vita ad una futura generazione di eredi. Figli sani, fiorenti e non malati come la stirpe dei Figli della Guerra, kamikaze anemici dalle sembianze cenobitiche alla ricerca di donatori di sangue per sopravvivere, in attesa di varcare i cancelli del Valhalla con una morte gloriosa. Max è la sorgente di emoglobina che tiene in vita il giovane Nux (Nicholas Hoult), driver di un bolide motorizzato lanciato all’inseguimento di Furiosa (Charlize Theron) che, al volante della blindo-cisterna diretta a Gas Town per il recupero del carburante, ha portato con sé le concubine di Joe evitando lo scempio di una continua e insana procreazione. L’Imperatrice, dalla conturbante bellezza di Charlize Theron (qui contaminata da un mascolinità aggressiva ma al tempo stesso sensibile ed altruista), è la vera protagonista del film. Il suo personaggio schiaccia a tavoletta il pedale dell’acceleratore dando inizio ad una lunga ed inesauribile corsa verso la redenzione.
Nel suo viaggio trova in Max un alleato inaspettato, un uomo solo, senza famiglia, che parla poco, mugugna a tratti, e spara tanto. Il suo volto è quello di Tom Hardy, stratosferico e sempre più epico nelle sue interpretazioni, che non fa rimpiangere il suo predecessore Mel Gibson, ma riesce a donare al personaggio una dimensione diversa, più tragica e decadente, oltremodo leggendaria. Nella fuga nel deserto, in un luogo saturo di colori caldi – ma anche pallidi – di giorno ed oscuri di notte, si materializza una parabola punk-metal-apocalittica fatta di spettacolari esplosioni e duelli tra autocarri e monster trucks in stile western (ripresi dal vivo). Un inseguimento ininterrotto lungo 125 minuti che sa di ‘car chase‘ (chiave di sviluppo della saga di Fast & Furious che omaggia anche Mad Max), intriso di dialoghi concisi e silenti e un’azione roboante. Un’azione in cui veniamo trasportati in un tripudio globale di rabbia, pazzia, follia, allucinazione, delirio ed illusione. Una miscela compulsiva di emozioni, sensazioni, riflessioni: Mad Max: Fury Road è tutto questo. I luoghi e le atmosfere desertiche del film, che dialogano contemporaneamente con quelli di Dune di David Lynch e Lawrence d’Arabia di David Lean (da cui il prode Max ne eredita le virtù da condottiero), descrivono il tracollo del genere umano che deve comprendere qual è la strada giusta da percorrere. Il riscatto femminile dell’emancipata Furiosa e la vendetta dell’eroico Guerriero della Strada corrono insieme nel super carro carrozzato, tra lande desolate e tempeste di sabbia, con i loro protagonisti, divisi da un modo diverso di intendere la speranza, ma uniti da un obiettivo comune di sopravvivenza. Perché dopotutto il futuro, con le sue innumerevoli incognite, appartiene ai folli, e cosa siamo noi se non dei folli che credono ancora nel futuro? George Miller ce l’ha ribadito, portandoci nel ‘paradiso’ cinematografico del suo Mad Max: Fury Road che, siamo certi, verrà analizzato, interpretato, frammentato tramandato negli anni, lasciando un segno indelebile nella settima arte.