LAZZARO FELICE, la recensione del film di Alice Rohrwacher

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lazzaro felice
Adriano Tardioli e Luca Chikovani in Lazzaro Felice
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Adriano Tardioli in Lazzaro Felice
Lazzaro felice, terzo lungometraggio di Alice Rohrwacher e vincitore del premio per la miglior sceneggiatura alla 71° edizione del Festival di Cannes, è una fiaba, proprio di quelle che iniziano con il “C’era una volta”.
Lazzaro (Adriano Tardioli) è un giovane contadino tuttofare dell’Inviolata, immaginaria tenuta di proprietà della Marchesa Alfonsina De Luna, perfida “regina delle sigarette” interpretata da Nicoletta Braschi. Il podere è separato dalla città da un ponte crollato, e i mezzadri, sfruttati e costretti a vivere in condizioni impietose, non conoscono l’ambiente urbano. Tuttavia, in seguito all’amicizia con il coetaneo figlio della marchesa Tancredi e ad una serie di circostanze “soprannaturali”, anche Lazzaro dovrà fare i conti con la realtà esterna.
Come in ogni fiaba che si rispetti, è compito dello spettatore cercare di orientarsi e individuare le coordinate (tanto storiche quanto geografiche) alle quali fare riferimento. L’atmosfera di eterea astrazione si mescola con la rappresentazione della fatica quotidiana degli sconfitti, dando vita ad un racconto dal sapore malinconico e mestamente dolce. Sbalzi temporali ed elementi fantastici si innestano su un impianto di concretezza e gusto tattile a cui la regista ha abituato fin da Corpo celeste (2011). La nostalgia del mondo arcaico viene rievocata attraverso la nobiltà attribuita a situazioni che sembrano provenire da molto lontano: serenate d’amore, guardiani di pollai, un fantomatico lupo che si aggira nei boschi circostanti, “cavalieri” che stringono un giuramento di fratellanza, la musica che scappa da chi la genera per seguire chi preferisce. I temi che Alice Rohrwacher affronta sono ormai distintivi del suo cinema, e si manifestano nella mancata possibilità di reinserimento nella società industriale, nell’ingenua ed ingiustificata fiducia riposta nella gente da parte del protagonista e nella fittizia libertà che il mondo contemporaneo promette (ora non si è più schiavi, ma più poveri di prima e meno onesti nei confronti del prossimo).
lazzaro felice
Adriano Tardioli e Luca Chikovani in Lazzaro Felice
Colpisce la religiosità di cui Lazzaro felice è intriso. Una spiritualità umana che si riflette su più livelli: l’emblematico nome del protagonista e l’allegoria dell’incontro salvifico di Lazzaro con il Lupo sono solo l’esplicitazione della ritualità sacrale che governa i gesti e i rapporti dei personaggi.
L’epica delle piccole cose e il tono della prima parte del racconto ricordano da vicino la poetica del primo Ermanno Olmi, soprattutto de Il tempo si è fermato (1958) e I fidanzati (1963), mentre il realismo “magico” che aleggia nella seconda rievoca la raffinatezza di Miracolo a Milano di Vittorio de Sica (1951), dando origine ad un connubio di delicata eleganza a cui il cinema italiano di oggi non è granché abituato.
È interessante notare che rispetto ai film precedenti della regista, la via d’uscita è più enigmatica e meno assicurata. Nonostante un considerevole calo di intensità nella fase conclusiva e un simbolismo fin troppo lezioso, Lazzaro felice rappresenta senza dubbio una delle esperienze di visione più affascinanti dell’ultima stagione cinematografica italiana. Da non perdere.