LA VERITÀ NEGATA, la recensione del film con Rachel Weisz

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La Verità Negata (Denial) - Photo: courtesy of CINEMA di Valerio de Paolis
La Verità Negata (Denial) - Photo: courtesy of CINEMA di Valerio de Paolis
La Verità Negata (Denial) – Photo: courtesy of CINEMA di Valerio de Paolis
Anni ’90: la storica e autrice dell’Olocausto Deborah E. Lipstadt viene citata in giudizio per diffamazione dallo storico britannico David Irving, autore di una serie di opere di tendenza esplicitamente negazionista. Ad avere un ruolo risolutivo in tribunale non saranno le perizie legali ma la ricerca storiografica unita alla ricostruzione degli eventi.
Tratto dal libro Denial: Holocaust History on Trial della stessa Lipstadt, che ricostruisce le fasi principali del celebre processo, La Verità Negata è la nuova pellicola a sfondo drammatico di Mick Jackson (Pazzi a Beverly Hills, Guardia del corpo) interpretata da Timothy Spall, Tom Wilkinson e dal premio Oscar® Rachel Weisz. Il lungometraggio, presentato alla Festa del Cinema di Roma 2016, segue senza particolare originalità i codici narrativi del genere giudiziario, dove però sotto processo non finiscono tanto gli individui implicati quanto la stessa verità storica. Lo spunto poteva dar vita ad un cinema d’inchiesta solido, impattante di sicuro interesse, ma la sceneggiatura di David Hare evita questa strada concentrandosi sul più banale scontro tra buoni e cattivi descritti secondo i canoni consacrati del prodotto medio hollywoodiano.
La Verità Negata (Denial) - Photo: courtesy of CINEMA di Valerio de Paolis
La Verità Negata (Denial) – Photo: courtesy of CINEMA di Valerio de Paolis
Se però il film giudiziario gioca di solito le sue carte nella disfida tra protagonisti-vittime che con molta difficoltà possono provare la loro verità ed antagonisti potenti in odor di vittoria, non si capisce quale tensione dovrebbe scaturire nel confronto tra un’autrice che si fa portavoce della verità da noi tutti accettata, circondata dai migliori avvocati e per giunta supportata dalla bellezza di Rachel Weisz, ed uno sgradevole personaggio come David Irving (un ottimo Timothy Spall). La vicenda scivola presto nella sensazione di un gol a porta vuota o di una scarica di fucile sulla croce rossa, ed è con noia che si assiste alle svolte narrative come al prevedibile finale. L’effetto rischia così di essere controproducente rispetto ai pur nobili fini di difesa contro ogni forma di negazionismo dell’Olocausto.
Giancarlo Grossi

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