
Il settimo sigillo di Terrence Malick (l’ottavo e più recente Voyage of Time è stato presentato al Festival di Venezia 2016) arriva in Italia con un anno e mezzo di ritardo. Fatto di difficile comprensione, se si pensano alle titaniche e ventennali attese che il regista texano è stato capace di suscitare da I giorni del cielo fino a La sottile linea rossa, o all’infinita lavorazione di The Tree of Life. Al contempo pienamente intelligibile una volta visionato il film.
Simile e quasi gemellare al precedente To the Wonder, Knight of Cups segue le vicissitudini interiori di uno sceneggiatore di successo interpretato da Christian Bale, insoddisfatto a livello esistenziale dal materialismo di una vita divisa fra donne, feste e denaro, e alla ricerca di un senso definitivamente appagante dell’essere al mondo. Girato in pochi anni rispetto alle costanti abitudini malickiane, il film presenta le stesse caratteristiche – e difetti – del suo immediato precursore: narrazione paratattica finalizzata a fotografare il puro flusso del vissuto e assenza quasi totale di dialoghi sostituiti dalle voci fuori campo dei personaggi che sussurrano domande pseudo-filosofiche e ormai anche pseudo-spirituali. Perché è proprio qui che si gioca la differenza tra queste ultime pellicole di Malick ed i precedenti capolavori: nel decadimento di una vera ricerca vitale oltre che cinematografica, sostituita dalla sua parodia a buon mercato. Com’è possibile scambiare ancora per domanda filosofica un agglomerato vagamente new age capace di rimestare Platone e Agostino (versione soft, of course), i tarocchi – che scandiscono i diversi capitoli della vicenda –, yoga, misticismo cristiano e bellezze da spiaggia? Dov’è finito il mistero del La sottile linea rossa, ancora presente nel mastodontico The tree of life?
