INDEPENDENCE DAY: RIGENERAZIONE, la recensione del disaster-movie di Roland Emmerich

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Independence Day Rigenerazione - Photo: 20th Century Fox
Independence Day Rigenerazione - Photo: 20th Century Fox
Independence Day Rigenerazione - Photo: 20th Century Fox
Independence Day Rigenerazione – Photo: 20th Century Fox
“Nieeeente paaaace!”
Così come i colossali e iconici dischi volanti immaginati dal regista Roland Emmerich hanno portato sul pianeta Terra una massiccia ondata di distruzione senza scampo apparente, allo stesso modo Independence Day, baraccone fantascientifico e patriottico datato 1996, è riuscito dal nulla ad affermarsi con rocambolesca prepotenza tra i ranghi dei blockbuster di culto.
Se ancora oggi ricordiamo con il sorriso in volto quella precisa annata cinematografica, totalmente monopolizzata dall’opera del filmmaker tedesco, lo dobbiamo alla precisa combinazione di roboanti effetti speciali, fiera morale americana e stelle del panorama hollywoodiano in stato di grazia (su tutte un carismatico Will Smith). Com’era prevedibile, Emmerich è stato automaticamente eletto Re del Genere Catastrofico e, pur avendo lui stesso attinto senza nasconderlo a veri e propri capostipiti della categoria come La Guerra dei Mondi (1953) e Ultimatum alla Terra (1951), è riuscito a condizionare indelebilmente l’immaginario visivo di quei cineasti che, dopo di lui, si sono avventurati nell’ambito della fantascienza di natura “apocalittica”.
Sono passati 20 anni esatti dai fatti narrati in Independence Day (e nella realtà) e il genere umano sembra aver imparato più da quella singola invasione che in millenni di evoluzione naturale, sicuro di poter rispondere al fuoco con il fuoco ad ogni evenienza. Idea interessante quella di portare la tecnologia aliena dalla parte dell’Uomo ma che, putroppo, rimane solamente abbozzata, rivelandosi un elemento più visivo che concettuale. Come per il suo predecessore, anche in Independence Day: Rigenerazione a farla da padrone è lo stupefacente comparto di effetti speciali che restituiscono in tutto e per tutto quella stessa sensazione, tipicamente anni ‘80/’90, di trovarci di fronte a qualcosa di monolitico e misterioso, distante anni luce da noi per cultura e progresso e delle cui azioni non riusciamo ancora a comprendere gli estremi limiti.
Independence Day Rigenerazione - Photo: 20th Century Fox
Independence Day Rigenerazione – Photo: 20th Century Fox
Gli extraterrestri sono tornati con l’intenzione di prosciugare il nucleo del nostro pianeta. Al loro arrivo, tutto ciò che si portano appresso è oggettivamente più grande (astronavi, armature, veicoli da combattimento) ma la carica minatoria risulta nettamente inferiore, per non dire quasi del tutto assente. Mentre il primo capitolo trasudava una certa tragicità di fondo e l’ago della bilancia pendeva decisamente dalla parte degli invasori alieni (almeno in principio), in questa nuova avventura non percepiamo mai un senso di vero pericolo e non ci viene mai il dubbio che i terrestri possano uscirne sconfitti. Distruzione e sconvolgimenti di ogni tipo non mancano di certo, eppure tutto è inevitabilmente più modesto rispetto a ciò di cui questo genere cinematografico ci ha saziato nelle ultime due decadi. Inutile dire che, a ritornare, sono anche tutti quei protagonisti che, nel tempo, si sono guadagnati il nostro affetto di spettatori; tuttavia, complice un assai debole lavoro di script, nessuno di loro (ad eccezione, forse, del riesumato Bill Pullman nel ruolo del Presidente Whitmore) sembra avere un valido motivo per essere stato ora richiamato all’appello, se non quello di mettere in moto il cosiddetto “effetto nostalgia”. L’ovvia conseguenza è che la linea narrativa principale prosegue per inerzia e casualità e ogni tentativo di avviare una qualche sorta di sottotrama si rivela un buco nell’acqua (in tutti i sensi).
Dopo aver devastato la nostra amata Terra in ogni modo possibile (2012, The Day After Tomorrow, lo stesso Independence Day), Emmerich torna al cinema con un sequel fuori tempo massimo che fallisce anche solo nel cercare di riproporre lo stesso spirito “Made in U.S.A.” e la stessa carica di ribalta della pellicola originale. L’epicità e l’orgoglio si dissolvono in un unico oceano di sequenze d’azione derivanti da processi causa/effetto privi di qualsivoglia realismo o logica di fondo. Il risultato è un mero prodotto d’intrattenimento dalla debole identità che non riesce a emergere dalla crescente schiera di suoi simili (sia piccole che grandi produzioni) e che finirà immancabilmente per essere dimenticato o, in ogni caso, etichettato come opera superflua.
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