Matteo Rovere, regista, sceneggiatore e produttore de Il Primo Re, ha detto una cosa molto interessante.
Ha detto che il cinema italiano è chiuso in una gabbia invisibile le cui sbarre si vedono solo tentando di aprirla.
Ci sono molti motivi per cui questo film merita di essere visto al cinema e non è solo per la sua assoluta bellezza visiva. Non è solo per la presenza di un “beniamino” del cinema italiano contemporaneo come Alessandro Borghi. Non è solo per la storia che racconta, quella leggenda alla base della nostra civiltà.
No: Il Primo Re merita perché è qualcosa di mai visto prima nel cinema italiano.
Il regista italiano non ha soltanto raccontato la storia (o meglio una delle storie) della nascita di Roma, ma lo ha fatto in maniera nuova, con un respiro ampio pur riducendo il tutto a una vicenda umana e, se vogliamo, piccola.
LA LUCE E L’OMBRA
Il Primo Re vive innanzitutto di contrasti, immediati e non: il giorno e la notte, la luce e l’ombra, il sacro e il profano, la comunità e l’individuo.
Romolo (Alessio Lapice) e Remo (Alessandro Borghi) sono i due fratelli di cui conosciamo già il fato, ma non molto altro.
Qui li vediamo quando sono due semplici pastori che abitano le sponde del Tevere. Quando il fiume esonda brutalmente, trascinandoli lontano dalle loro terre, i due vengono fatti prigionieri dai guerrieri di Alba e condotti in catene a una cerimonia religiosa insieme ad altri sventurati.
Nel cuore della notte e della cerimonia, i fratelli riescono a liberarsi dalle catene e a scatenare una rivolta nel corso della quale Romolo rimane gravemente ferito. Inizia così un viaggio alla ricerca di un guado verso la sponda opposta del Tevere, in cerca di salvezza dai cavalieri di Alba.
Remo prende in mano la situazione e, motivando i rivoltosi, li unisce sotto la sua guida alla ricerca di una nuova terra. Con loro viaggia anche una sacerdotessa (Tania Garribba) di Alba, custode del fuoco sacro, che il devoto Romolo ha portato con sé. Da qui si dipanerà la vicenda che condurrà due fratelli che si amano a scontrarsi e a far nascere “il più grande Impero che il mondo abbia mai visto”.
Il modo in cui Matteo Rovere rimuove l’elemento epico e mitologico da una storia che si presterebbe benissimo a quel tipo di grandiosità è un atto di coraggio. Quello che lui e gli altri sceneggiatori (Filippo Gravino e Francesca Manieri) fanno è presentare la storia come profondamente umana, terrena. La suggestione mitologica è sempre presente con i continui richiami alle divinità, ma queste non si manifestano mai. C’è una scena in particolare, che vede protagonista la sacerdotessa, in cui il regista mette in chiaro come la presenza sovrannaturale nasca dalla suggestione umana.
Sarebbe certamente stato più facile approcciare il film in maniera più classica, come una sorta di peplum vecchio stile, ma uno dei punti di forza de Il Primo Re è proprio quello di ridurre la vicenda a qualcosa di viscerale, di antropologico.
LA NATURA DELLE COSE