Fortunata è un film che sembra volersi adeguare allo stile contemporaneo, fatto di ritmo, di inquadrature a “occhio di dio” e di ironia. Il problema formale della regia di Sergio Castellitto sta proprio nel tentare, senza riuscirci, di mascherare la sua natura di tradizionale film italiano.
Non si può negare che il lungometraggio scorra piacevolmente, allungandosi troppo nel finale, ma generalmente entro i limiti della sopportazione.
Fortunata racconta la vita in periferia, della classe povera dell’Italia. La protagonista (Jasmine Trinca), il cui nome dà il titolo al film, si barcamena tutto il giorno in una corsa continua per la sopravvivenza. Un ex marito violento la tormenta. La figlia, alle porte della preadolescenza, reagisce alle difficoltà della vita con rabbia. Fortunata corre tutto il giorno nelle case dei clienti. Lei lavora come parrucchiera in nero, cercando di vivere e sopravvivere alla giornata. Un giorno entra nella sua routine Patrizio (Stefano Accorsi), il quale sconvolgerà la vita della famiglia, facendogli assaporare la libertà di un’esistenza serena.
La sceneggiatura di Margaret Mazzantini si impone con forza sull’equilibrio drammatico. Ritornano i temi a lei cari, le figure di donne oppresse ma forti, la violenza, l’analisi della società a partire dai ceti meno abbienti. Da Verga a oggi le classi povere, con i loro piccoli drammi, ingigantiti dalle esigenze di sopravvivenza, sono quelle che meglio si prestano ad un racconto empatico. Al contempo però è molto semplice, per scrittori e sceneggiatori, cadere nei cliché o nell’eccessiva semplificazione. Mazzantini mette da parte ogni realismo e complessità, sintetizza attraverso i canoni rappresentativi i suoi personaggi. Così la nonna malata di Alzheimer ripete a memoria le battute dell’Antigone, da lei interpretata in gioventù. La sua sorte sarà quanto mai simile a quella narrata nella tragedia. In questo mondo filmico i tossici sono tatuatori con gli occhi sgranati (il pur bravo Alessandro Borghi sembra destinato ad interpretare sempre lo stesso personaggio); i figli problematici sputano e dicono parolacce (niente di più, niente di meno); il marito violento è un poliziotto con la divisa slacciata in segno di machismo, sboccato, volgare e ossessionato dal sesso. E così via, una carrellata di luoghi comuni e individui, che profumano di scrittura e artificio.
Fortunata si interessa al lato emotivo, alla sofferenza dei suoi personaggi. La protagonista guarda dall’alto della finestra di casa una società che si muove all’unisono. Un gruppo di cinesi scandisce le giornate facendo ginnastica, muovendosi a ritmo. Allo stesso modo, dall’altra parte del quartiere, gli arabi pregano chinandosi assieme, come un’onda. Fortunata invece non riesce ad andare a ritmo con questo mondo, corre con una propria andatura, non ha tempo, deve sfuggire al continuo dolore.
Il film non dà l’impressione di avere le gambe per correre dietro alla sua protagonista. Le sequenze si alternano: dal un lato alcune dinamiche, riuscite, moderne; dall’altro, invece, situazioni incomprensibili nel tono. Ad esempio, durante la dichiarazione di Patrizio a Fortunata, bisogna ridere, piangere o accettare il grottesco così come è? E ancora, la ricerca insistita delle metafore si fa troppo esplicita, a partire dal concetto di fortuna, per potere essere veramente incisiva.
Castellitto non ha diretto un film imperfetto in tutto e per tutto, ma solo pieno di intenzioni che non vengono mai raggiunte e colmate. Forse, con qualche revisione in più, e con qualche minuto in meno, avremmo avuto un prodotto più internazionale e meno, stancamente, italiano.