Fitzcarraldo di Werner Herzog, l’elogio alla follia con Klaus Kinski e Claudia Cardinale

Un moderno Sisifo, o forse l’eterno conflitto nietzscheiano tra Apollineo e Dionisiaco cucito addosso al folle Klaus Kinski. A chi gli chiedeva del perché voler raccontare la vicenda di Carlos Fitzgerald – in arte Fitzcarraldo, Werner Herzog rispondeva che più che la scalata al successo, lo affascinava l’idea di un uomo che per realizzare il suo scopo dovesse far passare una nave su per una collina. Presentato in concorso al 35° Festival di Cannes; vincitore del Prix de la mise en scène; larga parte della fama di Fitzcarraldo (1982) – più che all’opera in sé – è dovuta alla sua lavorazione divenuta ormai mitologica. Per Herzog era il progetto della carriera, tanto che con l’avvisaglia delle prime problematiche si pronunciò così:

Se io abbandonassi questo progetto sarei un uomo senza sogni; e non voglio vivere in quel modo. Vivo o muoio con questo progetto.”

Werner Herzog

In principio infatti, la pellicola si sarebbe dovuta girare nel 1979, in un’area al confine tra Perù ed Ecuador. Peccato che un gruppo paramilitare della zona, rappresentante la tribù degli Aguaruna, si oppose in tutti i modi alla lavorazione. Diffusero infatti, voci infondate sulla troupe arrivando perfino alle minacce di morte per chi ne avesse fatto parte. Nel dicembre 1979, a produzione avviata, l’accampamento di Herzog venne circondato da indigeni armati e infine bruciato. Ci volle un anno intero prima che il cineasta tedesco potesse trovare una location adatta al suo folle progetto filmico.

Fitzcarraldo aprì ufficialmente i battenti nel gennaio del 1981 con un cast molto differente da quello che conosciamo. Il progetto iniziale vedeva infatti la partecipazione di Jason Robards nel ruolo che sarà poi di Kinski; Mario Adorf come capitano della barcarola; infine un inedito Mick Jagger nei panni di Wibur, l’aiutante del protagonista.

La dissenteria di Robards, il contratto di Jagger e le peripezie della Huallaga

Dopo circa cinque settimane e quasi metà script portato in scena, Jason Robards si ammalò gravemente di dissenteria sul set selvaggio. Il responso medico era chiaro, l’ex-Cheyenne leoniano non poteva più continuare la lavorazione. Herzog si trovò così costretto a congelare il progetto per sei settimane e trovare un nuovo protagonista; la scelta cadde su Klaus Kinski, celebre amico-nemico e attore feticcio herzoghiano che tornò così a collaborare con il cineasta tedesco a 3 anni da Woyzeck (1979).

Nel frattempo, con praticamente un mese e mezzo di lavoro bruciato, venne indetto il re-shooting delle scene con un ulteriore aggravante; per conflitti “musicali” Jagger si trovò costretto a sciogliere il contratto – costringendo Herzog a tagliare via il personaggio di Wibur, dando, così – di riflesso – maggior caratterizzazione al resto degli agenti scenici.

La nave di Fitzcarraldo

Se le grane con gli attori fecero venire i capelli bianchi a Herzog, il meglio deve ancora venire per la lavorazione di Fitzcarraldo. Nelle intenzioni del cineasta de Nosferatu – Il principe della notte (1979) infatti, c’era la volontà specifica di girare la scena della montagna con una vera nave; così che il pubblico potesse percepirne il realismo. Scelta che fa il pari con lo spiccato realismo del racconto e il background documentaristico del cineasta tedesco; spingendo la produzione a garantirgli ben tre navi: la Nariño, la Huallaga e una sua gemella; quest’ultime utilizzate per la realizzazione della celeberrima scena.

Per la realizzazione del traino venne assunto l’ingegnere Laplace Martins che progettò un sistema di argani con un’inclinazione a 20 gradi; tuttavia, per via della natura scoscesa, Herzog si ostinò verso un’inclinazione del doppio da quella progettata dall’ingegnere. Il risultato è quello che vediamo in scena: la nave si mosse ma il tirante si ruppe immediatamente. Con la Huallaga bloccata, Herzog utilizzò la sua gemella per la scena delle rapide, finendo con il rimanere incagliata per quasi due mesi; soltanto la stagione delle piogge gli permise di completare la lavorazione, e così dichiarare:

Non dovrei più fare film, dovrei andare direttamente in manicomio. Nessuno riuscirà a convincermi ad essere felice di tutto questo.”

Fitzcarraldo: la sinossi del film di Werner Herzog

Amazzonia, fine Ottocento. Brian Sweeny Fitzgerald (Klaus Kinski) noto come Fitzcarraldo, ha un sogno: costruire un Teatro dell’Opera a lquitos per farvi esibire Enrico Caruso; ammirato al Teatro dell’Opera di Manaus. I progetti in cantiere sono però tanti: una ferrovia transandina e una fabbrica del ghiaccio. La sua amante però, Molly (Claudia Cardinale), lo convince a dedicarsi alla raccolta del caucciù per finanziare la folle idea amazzonica.

Per farlo però, Fitz deve giungere sino al fiume Ucayali, spartito tra i grandi produttori del settore tra cui Don Aquilino (José Lewgoy), che lo aiuta mostrandogli il metodo. C’è un problema nel progetto. Per giungere in quel passaggio del fiume infatti – confluenza tra il Rio delle Amazzoni e le rapide del Pongo das Mortes – l’unico modo è attraversarlo “da terra”; trascinando la nave nell’unico punto in cui i due fiumi quasi si toccano. Ne deriverà così un’impresa folle tanto quanto l’idea stessa alla base, che porterà il visionario imprenditore a realizzare di qualcosa di ben più importante del Teatro dell’opera nella giungla: il consegnarsi alla leggenda.

Klaus Kinski in una scena de Fitzcarraldo

La ballata amazzonica del sognatore-costruttore di cose inutili 

“Cayahuari Yacu nennen die Waldindianer dieses Land, “das Land in dem Gott mit der Schopfung nicht fertig wurde. Erst nach dem Verschwinden der Menschen, glauben sie, werde er wiederkehren, um sein Werk zu vollenden”.

Che tradotto vuol dire:

“Gli indiani della foresta chiamano questa terra “Cayahuari Yacu”, la terra in cui Dio non poteva far fronte alla creazione. Solo dopo la scomparsa del popolo, credono, tornerà per portare a termine la sua opera.” 

Il tema musicale di Wehe Khorazin dei Popol Vuh; giungla incontaminata ed elementi testuali a camera fissa; una delicata zoomata, di cui Herzog ci dà enigmatiche sensazioni imponenti e monumentali; poi uno scarto di montaggio; la frenesia per Caruso all’opera; e l’arrivo degli agenti scenici di Kinski e Cardinale su di una barcarola. Apre in modo suggestivo Fitzcarraldo, da cui si denota l’atipicità narrativa del suo linguaggio filmico nel segno di champagne francese e un sogno che è quasi una chimera.

Un “remare per due giorni e due notti” tra vestiti malmessi; ferite alle mani; sguardi allucinati e auto-suggestioni attraverso cui Herzog edifica le basi del conflitto scenico e delinea – di riflesso – i contorni caratteriali dei suoi coloriti agenti scenici “in campo lungo” tra background industriale e progetti futuribili.

Klaus Kinski in una scena de Fitzcarraldo

Lo sviluppo del racconto si permea così di un andamento netto e incisivo nella sua crescita, codificandone l’atipicità di una narrazione che vive al suo interno di piccole follie; di dialoghi inudibili e musica sovrastante; piani medi intimi; campi lunghi a perdita d’occhio e composizione d’immagine che fa perdere i suoi protagonisti tra il fasto del teatro e la giungla incontaminata. Ma soprattutto della sua natura narrativa intrinsecamente vivace. Un racconto, infatti, tipicamente americano nella sua connotazione da self-made-man, ma riletto da uno dei più solidi registi europei in una chiave da insolito Sogno Amazzonico che è incontro tra follia e pragmatismo.

“Chi sogna può spostare le montagne”

Cresce così la folle componente utopica di Fitzcarraldo, vivendo delle impennate emotive di un Kinski in stato di grazia; “pioniere dell’astratto” e “feticista del grammofono” tra campane suonate istericamente e minacce a occhi di fuori; Ridi Pagliaccio e scrofe domestiche; e di una sgraziata ed emaciata Cardinale, impareggiabile “compagna d’armi”.

Herzog costruisce infatti, il sogno impossibile di un idealista che sposterà le montagne dal vestito spiegazzato e perennemente sporco codificandolo attorno a una rilettura del topos del viaggio fordiano – ovvero esplicitazione degli archi di trasformazione dell’agente scenico – che sa d’ironica beffa. Elogiato e cantato, in partenza, dagli stessi industriali che lo hanno irretito; a bordo di una nave che è un colabrodo; guidato da un lupo di mare senza bussola; un cuoco sessuomane e di un equipaggio ammutinato in pochi secondi.

Klaus Kinski in una scena de Fitzcarraldo

Il cineasta de L’enigma di Kaspar Hauser (1974) arricchisce così di senso e colore un viaggio che è si, disgregazione di progetti incompiuti, ma anche auto-affermazione dell’individuo verso un fine utopico; in barba ai pragmatici del mondo. Un giocare con l’inerzia del suo racconto “al limite”, portato in scena da un occhio registico realisticamente crudo e senza filtri, ma pervaso – al contempo – di momenti poetici; di grammofoni che risuonano nel silenzio della giungla e della lirica drammatica che traspare dal semplice movimento di una nave su terra.

Fitzcarraldo: il valore delle immagini, e la climax fiabesca

A circa tre quarti del terzo atto infatti, Herzog depotenzia del tutto la dimensione scenica dei suoi agenti narrativi lasciandoli di contorno per dare così alle immagini – e alla carica di cui si fanno portatrici – il compito di portare avanti il racconto. Fitzcarraldo vive così di immagini filmiche, in un susseguirsi di dettagli e particolari dei lavori e degli uomini che fanno si come, a un certo punto, sia la stessa nave – e la carica valoriale cucitale addosso – al centro della scena, piuttosto che Kinski.

Klaus Kinski in una scena de Fitzcarraldo

L’imbarcazione infatti, va a evolversi da simulacro di un sogno folle e utopico con cui farsi beffe del mondo, a divina provvidenza per gli indios; in una transizione che va così a cementificare gli intenti dell’iconica climax fiabesca. Tra le gole del fiume e musica operistica infatti, Herzog ribalta ancora una volta l’inerzia di Fitzcarraldo, dando così all’utopica impresa i connotati di gigantesco MacGuffin narrativo riabilitando, di riflesso, la dimensione narrativa dell’omonimo protagonista di Kinski da “folle perdente” ad “avventuriero vincente”.

Tra Aguirre furore di Dio e Apocalypse Now!: la chiusa del cerchio di Werner Herzog

Era il 1972 quando Herzog realizzò Aguirre furore di Dio (1972) – allegoria della società in mutamento tra colpi di stato e totalitarismo – che si caratterizza, anch’essa, di un approccio registico documentaristico e senza filtri. L’opera, oltre a dare il là al sodalizio con Kinski, fu diretta ispirazione per Francis Ford Coppola nella realizzazione di Apocalypse Now! (1979); specie nel declinare il rapporto tra la perdita della ragione degli uomini civilizzati, gli autoctoni e natura incontrastata.

Quasi dieci anni dopo, Fitzcarraldo si presta a una struttura narrativa più corposa rispetto ad Aguirre; trovandovi rimandi coppoliani nella gestione della “connotazione fluviale” del racconto che sembrano quasi rileggere Cuore di Tenebra di Joseph Conrad e il “mistero dell’Orrore“. Una chiusa del cerchio, quella operata da Herzog, che imbriglia ancora una volta l’esplosività recitativa di Kinski al servizio della “follia“. A differenza di Aguirre però, in cui la follia malevola di Don Lope tiranneggiava pontificando sull’incesto, la razza pura e il dominio incontrastato, in Fitzcarraldo, la follia dell’omonimo protagonista risulta benevola; dandogli quella forza necessaria a superare l’impossibile così da giungere sino ai confini del divino e del leggendario.