Stephen Strange è un eroe che soffre e, per questo, Doctor Strange è un film estremamente in salute.
Una delle principali critiche che vengono rivolte ai Marvel Studios è quella di lasciare poca libertà ‘espressiva’ ai registi, di costringere la creatività a un ruolo secondario per esigenze di mercato e per il bisogno di creare un mondo coerente e uniforme. Doctor Strange, invece, pur mantenendo una struttura classica fin troppo prevedibile (unica vera pecca del film), toglie le briglie alla potenza delle tavole di Steve Ditko e traduce al meglio il personaggio nato dalla penna di Stan Lee.
La Marvel ha, finalmente, portato al cinema un film. Può sembrare scontato ma non lo è. Un prodotto d’intrattenimento a tutto tondo, non la puntata di una serie televisiva ma un’esperienza da vivere nel buio della sala, di fronte a uno schermo ‘immersivo’ che apre la finestra su numerose realtà. La magia del cinema è la magia di Strange e, non a caso, l’origine dell’eroe è fatta di finestre, da cui osservare lo scorrere del tempo, di scorci di vita scorporata e intangibile che sembrano appartenere più al lavoro dello spettatore che alla stregoneria.
Doctor Strange sta a Matrix come Matrix sta ai film di George Meliés: un’esperienza cinematografica totale, in primo luogo visiva, poichéespressa attraverso le immagini più che a parole e le cui emozioni vengono comunicate con la grammatica dell’inquadratura. In seconda battuta, i fotogrammi diventano un’accecante meraviglia, una contemplazione mistica del sovrannaturale che, scevra da ogni significato religioso, diventa stupore puro, come quello di un bambino che ha appena scoperto la fantastica mescolanza dei colori su un foglio.
Si torna a giocare con il cinema in Doctor Strange.
Scott Derrickson non è un visionario (parola troppo abusata nel cinema) ma un autore che ha comunque potuto incanalare la vena creativa dei “pittori” della computer grafica, artisti moderni, e dare vita a un suo sogno a occhi aperti, fantasia o gioco che sia.
Il tempo è il tema centrale di un film dall’inizio sbagliato (i primi 5 minuti) ma dal primo atto perfetto in cui, oltre a una presentazione di un personaggio tangibile e interessante, c’è anche la scena di un’operazione chirurgica diretta magistralmente, che non mostra ma suggerisce, crea linee di tensione che rendono concreto e sospeso lo scorrere del tempo. Il tempo, dicevo, forza che distrugge anche le pietre (scriveva Tolkien) e che, in Doctor Strange, si fa vero villain, vero nemico delle ambizioni di un mondo dedito alla velocità.
Le mani, che possono accarezzare o picchiare, salvare vite o toglierle, sono il secondo protagonista del film. Così come nelle tradizioni orientali, lo studio della mano è rivelatore dell’anima, così in questo film Marvel, gli arti sono specchio dell’anima, a tutto tondo, dei personaggi.
Nel meraviglioso parco giochi visivo messo in scena, c’è però anche lo spazio per altri elementi cinematografici. La musica ha il suo spazio: Giacchino commenta le scene di rilascio trovando spesso la giusta intonazione, non banale. Gli attori recitano con convinzione, e non è poco. Cumberbatch aderisce al personaggio quasi quanto Robert Downey Jr. entrava nell’armatura di Iron Man, Mads Mikkelsen purtroppo è sacrificato in una parte non troppo riuscita, ma Tilda Swinton, l’Antico, presta le sue forme aliene a un personaggio magnetico. Mostrando assieme il dottore (prima del corpo, poi dell’anima) e il suo maestro, Derrickson regala una delle scene più intense e toccanti mai viste nella produzione Marvel. Un momento di poche parole ma di assoluta sapienza, nel modo in cui delinea un personaggio complesso e tridimensionale.
Strange soffre, è un eroe vulnerabile. Un supereroe con super-problemi (questo il marchio di fabbrica della Marvel) che sa fermarsi, per un attimo, a guardare la neve cadere soffice sul bordo dell’apocalisse.
Consigliato a: i fan dei tasselli più indipendenti e slegati dal grande mosaico Marvel.
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