
Il western è una frontiera senza confine.
Nonostante l’eclissi produttiva alla fine degli ‘anni ’70, che ha diradato il genere in termini numerici e di pellicole, l’epopea artistica del vecchio Ovest, esportata in Europa alla fine dell’800 dal prode Buffalo Bill nello spettacolo teatrale Buffalo Bill ‘s Wild West, ha vissuto momenti esaltanti grazie alla sua capacità di magnetizzare lo sguardo degli spettatori e a fidelizzarli empaticamente.
Il fascino e l’attrattiva esercitati dal western sul pubblico sono ancora oggi sinonimo di attaccamento e legame ad un’epoca storica, a una via illuminante del cinema che ha portato alla nascita di miti e leggende.
Da John Ford a Sam Peckinpah ai demiurghi italici Leone, Corbucci, Sollima (la triade dei Sergio), Martin Koolhoven metabolizza la lezione e costruisce un film diviso in quattro atti, titolati secondo una nomenclatura che rimanda ai testi sacri (Apocalisse, Genesi, Esodo, Castigo). Attraverso un processo di scrittura, lubrificata nella forma e attenta alla sostanza, Brimstone è la testimonianza concreta di quanto il cinema contemporaneo viva di una continua trasversalità di generi: una commistione totale che fonde western, dramma religioso, horror macabro, romanzo ancestrale e strizza l’occhio a Lo Straniero Senza Nome e allo stile di Enzo G. Castellari (per diretta ammissione del filmmaker).
Una leggendaria impresa di sopravvivenza solca i confini del selvaggio West, dove dalle sue lande desolate affiora un racconto di grande resistenza e femminilità contro la brutalità umana. Liz è una donna coraggiosa e di cuore che inizia ad essere perseguitata da un accanito Predicatore (Guy Pearce), il quale la tallona come un’ombra per tutta la sua esistenza. In un inferno terrestre privo di regole, Liz conoscerà paura e morte ma non si arrenderà. Armata di uno spirito anti-remissivo, la giovane escogiterà la sua vendetta.
