
Il tema della rappresentazione sta diventando una delle principali chiavi di lettura del cinema negli anni ‘10. Nessuno come il genere supereroistico è stato chiamato dal pubblico a rispondere al bisogno di creare una storia socio-culturale degli oppressi. Il “prodotto” film smette quindi di assumere la pura valenza di intrattenimento e, pur con le semplificazioni di un linguaggio rivolto ad un’audience amplissima, si fa movimento culturale. Ciò che negli anni ‘60 faceva il nuovo cinema giovane fatto da autori controcorrente, oggi è affidato all’industria della grandi major. Un paradosso nato dall’unione tra il potere del pubblico e l’esigenza di biglietti strappati dell’industria.
È così che Black Panther nasce dal basso, dalla pancia di quei fan Marvel che hanno vissuto il cammino decennale della Casa delle idee, con un’intensità tale da riuscire a fare sentire la propria voce e ad avere un supereroe che raccontasse le loro storie. La ghettizzazione, l’integrazione delle seconde generazioni di immigrati, non sono più temi delegati al cinema d’autore, ma entrano nell’industria dell’intrattenimento. È un passaggio epocale.

Il film, diretto da Ryan Coogler, arriva sul grande schermo come l’esplosione di una pentola a pressione. La forza con cui il cinecomic grida il suo messaggio spazza ogni impressione di artificialità dell’operazione. Se per la rappresentazione femminile Wonder Woman metteva in scena un punto di vista mediato da uno sguardo maschile (i primi piani insistiti sulla bellezza della Gadot, gli stereotipi narrativi della donna “sensibile”), Black Panther sceglie una via più radicale: quella di essere afroamericano nel cuore e nello stile. Se l’iconico logo non apparisse a pochi minuti dall’inizio, difficilmente potremmo pensare di essere davanti ad un film Marvel, per lo meno fino al terzo atto. La camera a mano di Coogler imprime un senso di realismo sin dai primi minuti. La posta in gioco è diversa da quello che ci si aspetterebbe: il regista non cerca l’allargamento spettacolare, bensì il legame tra la fantasia più sfrenata e il realismo della vita vera.
T’Challa, il principe del Wakanda, deve diventare re. Dopo la morte di suo padre e poco dopo la fine della guerra civile dei supereroi, il giovane si trova ad ereditare una nazione inquieta. Il regno segreto, situato nel cuore dell’Africa, deve decidere se aprire le sue porte al mondo. Il colonialismo? Una copertura per preservare le tecnologie preziose dalla violenza di una civiltà non ancora pronta al progresso.
Con questo ribaltamento Coogler imbastisce una storia che parla a tutti i figli di un mondo globalizzato, a coloro che si sentono senza terra, abbandonati dalla propria casa. Se l’Uomo Ragno è l’eroe dei timidi, Pantera Nera è il supereroe degli emarginati, di coloro che non hanno ancora trovato il loro posto nel mondo. È comprensibile, in quest’ottica, l’incredibile successo che il film troverà negli States. Sebbene infatti Black Panther sia uno degli episodi più spenti dei Marvel Studios, è chiaro il pensiero dietro alla realizzazione.
