10 Cloverfield Lane è il fratello di sangue del Cloverfield del 2008, come affermato dal produttore J.J. Abrams. Il film di Dan Trachtenberg prende, infatti, spunto dalle atmosfere e dai temi dal suo illustre predecessore, ma se ne distanzia radicalmente. Non c’è nulla nella vicenda, al di fuori di una sotto trama portata avanti dal marketing virale, che si ricolleghi al capitolo precedente. Non siamo di fronte ad un sequel ma ad una reinterpretazione dei medesimi argomenti.
La pellicola racconta la storia di Michelle, una ragazza che viene salvata e portata in un bunker da un individuo di nome Howard dopo aver subito un terribile incidente d’auto. Al suo risveglio l’uomo le comunica che gran parte dell’umanità è stata sterminata in seguito ad un attacco non meglio identificato: forse sono stati i russi, forse i marziani. Michelle dovrà decidere, assieme ad Emmet, un altro giovane rinchiuso nel rifugio con Howard, se fidarsi delle sue parole o tentare una rischiosa fuga.
10 Cloverfield Lane è tutto ciò che il cinema dovrebbe essere: una narrazione che coinvolge tutti i sensi, crea tensione e diventa specchio della condizione umana. La riflessione sui mostri non gode della messa in scena rivoluzionaria del primo Cloverfield e si sposta su un focus diverso, non troppo originale: i veri mostri possono essere gli uomini stessi. Però tutto ciò è descritto con ordine, gusto e la voglia di fare cinema con la lettera maiuscola.
Il punto di forza risiede nell’idea che lo supporta e nella bravura degli attori, e non dalla complessità o da effetti speciali roboanti. L’accostamento ad un episodio di “Ai confini della realtà” potrebbe non essere troppo insensato. John Goodman porta sulle spalle il peso di un personaggio complesso e ambiguo come Howard e si afferma come cuore pulsante del lungometraggio.
Le sue movenze conferiscono un’aura di tenerezza al personaggio ma la sua straordinaria fisicità gli permette di bucare lo schermo, incidendo congiuntamente sullo spettatore e sull’ottima Mary Elizabeth Winstead.
Autori della sceneggiatura, Josh Campbell, Matthew Stuecken e Damien Chazelle (regista di Whiplash) realizzano una trasposizione teatrale, almeno fino al terzo atto, che risulta anche intensamente cinematografica. 10 Cloverfield Lane è infatti un’opera che mostra, al posto di spiegare, e crea suspense attraverso la costruzione della scena. Piacerebbe ad Alfred Hitchcock questa pellicola che sembra avere imparato la sua lezione sulla costruzione dell’attesa e sulla percezione del pericolo. La regia calibrata ed attenta gioca con il punto di vista dello spettatore e arriva a terrorizzare sia quando sappiamo più dei personaggi sia quando siamo inermi di fronte agli avvenimenti.
Il gioco psicologico della reclusione e della scelta riguardo alla fuga funziona bene e appassiona, ci si immerge nella storia sin dall’inizio, grazie ai molti dettagli mostrati, alla rappresentazione precisa dello spazio e, per questo, ci si sente spesso chiamati in causa per trovare una strada, come deve fare la protagonista.
A sorpresa lo score di Bear McCreary commenta le immagini in modo egregio e l’ambiente sonoro riesce a divenire elemento drammaturgico. Capita, durante la visione, di tendere l’orecchio per ascoltare i rumori in cerca di indizi o per localizzare le insidie. Purtroppo qualche caduta nel Jump Scare c’è, ma viene bilanciato dalla brillante idea di mixare il suono della porta della cella come un grido metallico di donna. Una trovata inquietante e funzionale all’esposizione filmica.
10 Cloverfield Lane è una sorta di puzzle che, all’interno del lungometraggio, viene assemblato da Michelle ed Emmet: è incompleto, gli mancano dei pezzi, ma allo stesso tempo è possibile scovarne il disegno complessivo. Anche i misteri di Howard non vengono risolti interamente ma quando scorrono i titoli di coda nel finale non si può che uscire soddisfatti dalla sala, avendo ammirato un film che, finalmente, torna a dedicarsi al piacere di raccontare storie, senza eccessive pretese, e le racconta bene.
Consigliato a: tutti coloro che amano i grandi narratori.
Gabriele Lingiardi
Recensione pubblicata anche su MaSeDomani.com