Uno, nessuno e centomila: il ritratto del camaleontico Jake Gyllenhaal

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Jake Gyllenhaal
Jake Gyllenhaal
Jake Gyllenhaal in I segreti di Brokeback Mountain
In occasione del compleanno di Jake Gyllenhaal,
ripercorriamo la carriera dell’attore americano
Sono di un azzurro acceso gli occhi di Jake Gyllenhaal. Un mare profondo, in cui navigano, perdendosi, mille sfaccettature di una personalità mutabile, cangiante e sempre aderente ai ruoli affidati. Nell’iride le sfumature di personaggi introspettivi, mai piatti ma mossi da desideri ancestrali, paure, timori, sentimenti brucianti o repressi.

Cowboy innamorati, fidanzati traditi e vendicativi, soldati impauriti, astronavi coraggiosi: Jake Gyllenhall è uno, nessuno e centomila.

Un’anima votata all’arte del cinema sin dalla sua nascita, con quei lasciti genitoriali (il padre, Stephen, è un regista di origine svedese, mentre sua madre, Naomi Foner, è una sceneggiatrice) capaci di consolidare un talento innato. A cinque anni, quando i suoi coetanei giocavano con i soldatini, il piccolo Jake partecipa come protagonista nel video musicale dei Ratt, “Lay it Down”, ma è solo nel 1991 che l’attore fa il suo esordio al cinema quando, all’età di 10 anni, partecipa al film di Ron Underwood, Scappo dalla città – La vita, l’amore e le vacche.

Poteva aprirsi per il giovane Gyllenhaal una carriera da baby attore prodigio, ma la serietà dei propri genitori, decisi a non precludere una buona istruzione al figlio, porta Jake a partecipare a numerose audizioni, senza per questo accettare i ruoli offertigli in caso di esito positivo. Chissà se questo affrontare per anni la realtà circostante, conoscendola e vivendola in prima persona, abbia alimentato quell’introspezione e complessità che vive all’interno dei suoi personaggi. Perché quelli portati sullo schermo da Jake Gyllenhaal non sono mai ruoli facili e mono-interpretabili. In loro si annida un’emotività problematica, un’indole ribelle, sognatrice, in perpetuo conflitto con se stessa.
A farsi portavoce di una carica introspettiva colma di sfumature e diversi significati, è il ruolo che lo lancia nel mondo di Hollywood: Donnie Darko. È il 2001. Il film di Richard Kelly, presentato al Sundance Film Festival, è un insuccesso al botteghino, ma gli anni e l’interesse dimostrato per la tematica indagata e la straordinaria interpretazione di Jake (qui affiancato dalla sorella Maggie, anche lei talento sopraffino) lo hanno trasformato in un oggetto di culto. Fuga da Seattle, The Good Girl, Bubble Boy, Moonlight Mile e il disaster movie The Day After Tomorrow di Roland Emmerich sono solo piccoli passi che il giovane attore compie con audacia e sicurezza verso la prima delle tante vette di cui quella catena montuosa piena di alti e bassi che è la sua carriera attoriale si compie: con Brokeback Mountain Jake Gyllenhaal si afferma come uno dei talenti più puri della sua generazione. Il suo Jack Twist è una montagna russa di emozioni; i suoi occhi ricolmi di lacrime e di un amore (s)frenato per Ennis Del Mar (un indimenticabile Heath Ledger) sono una mitragliatrice pronta a colpire con mille e più pallottole il cuore dello spettatore. Jack Twist non è un innamorato qualunque. È un cowboy del Wyoming degli anni Sessanta-Settanta che ostenta una virilità frantumata da un sentimento represso per un uomo solitario e chiuso come Ennis. Le debolezze che lo lacerano, l’amore che lo atterra, sono sfumature che Jake Gyllenhaal riesce con straordinaria capacità a tradurre in una mimica espressiva mai esacerbata, ma giocata in sottotono. I silenzi dei personaggi sono assordanti, riempiono lo schermo parlando all’animo del pubblico, mentre gli occhi color mare di Jake investono ogni singolo spettatore affogandolo nell’emotività del personaggio.

Jake Gyllenhaal

Sam Mendes e David Fincher con Jarhead e Zodiac seguono il percorso tracciato da Ang Lee e sfruttano appieno il talento di questo attore nel modellare il proprio personaggio con facilità, quasi fosse creta. Un potere divino di creazione, grazie al quale il caporale Anthony Swofford e il vignettista Robert Graysmith non sono più personaggi tracciati con inchiostro su un pezzo di carta, ma uomini a tutto tondo, colpiti nell’orgoglio e nelle proprie ossessioni.
Il flop di pubblico e critica di Prince of Persia se per molti poteva tradursi in un ostacolo insormontabile per la propria carriera, per Jake Gyllenhaal si è tramutato in un incentivo; una spinta ulteriore con cui scegliere accuratamente personaggi non sempre ottimisti, ma investiti da un inferno personale, uno tsunami emotivo fatto di (tante) cadute e continue fobie. Il lutto che si tramuta in cieca violenza in Southpaw; la vendetta sotto forma di pagine calcate da un autobiografismo distruttore di Animali Notturni; la voglia di rinascere in Demolition e quella di liberarsi di un mistero ossessionante che mette in repentaglio la propria identità in Enemy di Denis Villeneuve; i tic esacerbati del detective Loki in Prisoners e la sete di celebrità di Lou, soddisfatta solo dalle riprese di incidenti e dall’interesse mediatico per la morte in atto in Nightcrawler, sono tutti battiti di un cuore pulsante atto ad animare quello che è un corpo pronto a inglobare e accogliere personalità più disparate e complesse. Un corpo che rivedremo presto, in Wildlife di Paul Dano e nel prossimo Spider-Man: Far From Home.

Perché il naufragar è dolce in quel mare profondo, blu cobalto, che sono gli occhi di Jake Gyllenhaal. Un mare che attrae e immerge, anima e uccide. Un cuore che vive di arte, cinema, talento.