Buongiorno Salvatore! Come, quando e con quali film nasce la tua passione per il cinema? Ricordi il giorno del primo film visto al cinema?

Non sono del tutto sicuro che sia il primo ma l’illuminazione sulla via di Damasco è arrivata sicuramente con Jurassic Park. Avevo 6 anni e andammo a vedere il fim con tutta la famiglia: papà, mamma e fratellino di 3 anni. Ricordo solo che provai molte emozioni e che ebbi paura. I miei invece raccontano una versione diversa. Pare che anche se ero terrorizzato, non riuscivo a staccarmi dallo schermo. Mio fratello al contrario – e giustamente – non se la visse benissimo e costrinse mia madre ad accompagnarlo fuori già dai primi minuti. Mio padre avrebbe voluto seguirli per evitare di separarci, ma a quanto pare io feci i capricci e mi impuntai nel vederlo fino alla fine. Mi piacque tantissimo anche il sequel, così a 10 anni scrissi Jurassic Park 3, prima che uscisse quello vero, c’erano dentro dinosauri cyborg e uno di questi si trasformava in Super Sayan. Purtroppo il manoscritto originale è andato perduto, o per lo meno mi rifiuto di cercarlo bene.

Quanto i tuoi studi, le tue specializzazioni all’estero e la tua attuale professione hanno contato, a livello pratico, nella formazione di regista e videomaker?

I miei studi sono stati una scelta sofferta, perché ho preferito in più occasioni la strada accademica a discapito di quella artistica. Ma è sempre stata una decisione presa “in nome” di quella artistica. Ho sempre avuto il pallino della ricerca e della scoperta. Jurassic Park mi era piaciuto soprattutto per il taglio scientifico. L’idea di riportare in vita i Dinosauri con una spiegazione a suo modo plausibile e accurata mi aveva esaltato, per questo ho sempre sognato di avere anch’io idee così originali. Mi sono sempre detto che non potevo andare avanti senza prima approfondire la parte accademica. Così sono partito dalla filmologia per approdare all’antropologia, alla psicologia e un po’ alle neuroscienze. Mi intrufolavo nei corsi universitari esterni al mio corso di laurea. Una volta al corso di Optometria chiamato “Psicofisica della visione”, mi ritrovai in ascensore con 5 o 6 studenti di medicina che mi fissarono per due minuti incuriositi dalla mia presenza. Qualcuno prese coraggio e disse: “Are you Erasmus?”. Io risposi “No, no, I am DAMS”.

Oggi la mia formazione è qualcosa di profondamente prezioso per me, ed è utile su tutti i livelli: nella scelta delle storie da scrivere, nello studio di quei filmoni che avrei voluto scrivere io, nella relazione con i colleghi dentro e fuori dal set e nel mettermi nei panni dei personaggi delle mie storie.

Hai curato diverse pubblicazioni di saggistica legate al cinema. Di quale tra queste sei più orgoglioso e soddisfatto?

Di quella che mi è valsa una borsa di dottorato. Come tesi di laurea magistrale ho fatto un laboratorio di educazione alla gestione dei conflitti per una classe di scuola superiore, utilizzando il cinema e la narrazione come strumenti per relazionarsi e conoscersi meglio. Si trattava di una classe che aveva il triste stigma di “classe problematica” all’interno dell’istituto e alla fine del laboratorio si sono uniti per combattere insieme quello stigma. Pare ce l’abbiano fatta, dai racconti dei prof che sento ogni tanto. E devo dire che ne vado orgoglioso anche se, sicuramente, ho principalmente avuto la fortuna di alimentare un fuoco già acceso da tempo. Da quell’esperienza, oltre alla tesi di laurea, è venuto fuori un articolo che ho scritto a quattro mani con uno dei miei relatori, il prof. Amedeo Boros, che è servito da trampolino di lancio per la ricerca di dottorato arrivata subito dopo.

Hai girato, anche e soprattutto, diversi documentari. Ce ne puoi parlare?

Il documentario è un genere cinematografico che mi ha dato tantissimo. Nel momento in cui ho visto Grizzly Man di Herzog ho capito che non avevo capito nulla. Allo stesso tempo non vorrei mai cimentarmi con un vero doc, non me la sentirei. Ho sempre amato immaginare e fantasticare, ma parlare anche solo concettualmente di “verità” mi mette a disagio. Anche per quello ho smesso di scrivere articoli accademici, sono più a mio agio nella finzione.
Dal punto di vista pratico però, la forma documentaristica è quella che si è adattata di più alle mie esigenze lavorative. Lavoro molto con l’università e realtà associative che hanno bisogno di interviste per raccontare il loro operato e le loro realtà. Più che un documentarista quindi direi che sono un assiduo intervistatore. Posso parlare soprattutto di “Mi sono capito”, un piccolo montaggio di interviste che mi piace chiamare documentario. Il progetto è stato finanziato dalle realtà attive in Piazza Gasparotto a Padova – una piazza storicamente nota per essere marginale e rifugio di persone in difficoltà. Ammiro molto il lavoro di riqualificazione che gli “abitanti” della piazza portano avanti e quando mi hanno chiesto di realizzare una breve testimonianza del loro operato ho deciso che volevo fare molto di più. Così un video che doveva durare 5 minuti ne dura ora 30 e viene chiamato amorevolmente documentario. Io lo considero una sorta di Pinocchio del genere, perché non nasce come un documentario vero, ma vorrebbe tanto esserlo.

Ma passiamo alla tua attività di regista di cortometraggi. Il tuo esordio avviene con “Il mio amico russo” nel 2009, se non sbaglio! Sempre nel 2009, giri anche il mockumentary “Il ballerino”…

Sia “Il mio amico Russo” che “il Ballerino” sono evidentemente parti di quegli anni. Con questi film ho iniziato ad abbracciare l’idea di poter realizzare dei film con i pochi mezzi che avevo. Mi considero un frutto della generazione youtube, cresciuto a pane e tutorial. Ma quando ho iniziato, non avevo a disposizione nemmeno quelli. Il primo vero tutorial che mi ha ispirato è stata l’autobiografia di Roger Corman, tuttora una Bibbia che porto nel cuore. Decisi che avrei sfruttato le risorse a mia disposizione anche se non erano direttamente collegate con il mondo del cinema. Infatti disponevo principalmente di studenti erasmus spagnoli e feste in casa.

Durante i primi anni di università frequentavo molto le realtà erasmus e, in generale, le comunità non italiane di Padova perché mi sentivo più in linea con il loro modo di passare il tempo…
Grazie alla grande amicizia con Jordi, protagonista del primo, ho potuto mettere in pratica quello che pensavo fosse un’idea infattibile.  L’entusiasmo delle persone che avevo intorno mi ha convinto a cimentarmi con un corto anche senza avere nessuno strumento, nessuna troupe e nessuna esperienza pregressa. È la mia prima e ultima esperienza con l’horror – per il momento. Mentre preparavo “Il mio amico russo” stavo già girando “Il Ballerino”. L’idea è venuta al mio allora coinquilino Carlo Cenini, con il quale tuttora collaboriamo. Ci siamo ispirati vagamente e bonariamente al cinema di Ciprì e Maresco, per intervistare chiunque ci capitasse a tiro in merito a un fantomatico “ballerino”, senza che costui esistesse realmente e senza che gli/le intervistati/e fossero preparati/e alla questione. Ogni intervista è del tutto improvvisata e ho sfruttato, senza farmi scrupoli, le persone che orbitavano all’epoca in casa mia quando vivevo con altri studenti. Spesso si creavano situazioni conviviali durante le quali costringevo i presenti, anche sconosciuti, a rispondere alle mie domande. Un film tirato su con le unghie, con i denti e con le birre. Il vanto più grande di questo film è che adesso, a distanza di anni, quasi nessuno degli intervistati ha dato il consenso per la diffusione pubblica del film. So che dovrei sentirmi dispiaciuto, ma sento di potermene vantare, perché mi ricorda la mia copia del dvd di “Cannibal Holocaust” che recita in copertina “Censurato in 23 paesi nel mondo”.

Nell’anno seguente giri il corto “E-Lena”, che ha partecipato al prestigiosissimo Science+Fiction Film Festival di Trieste. Raccontaci, siamo molto curiosi!

E-lena è il primo corto girato con una troupe. È stata la prima volta che ho avuto la possibilità di ricevere il sostegno di professionisti e di confezionare un prodotto sufficientemente professionale. Devi sapere però che io non volevo farlo!

Dopo “Il mio amico russo”, mi ero convinto che girare film in totale autonomia con la mia handycam minidv era il mio destino. Avevo romanticizzato lo stile “guerrilla”,  prima di tutto perché mi ero divertito da matti e poi, genuinamente, mi piaceva il risultato che avevo ottenuto. Per questo volevo già passare al lungometraggio. Avevo scritto un film chiamato “Minia e la macchina infernale”, una storia di fantascienza in cui un’astronave, finita in un buco nero, viene trasformata in una “casa studentesca” e gli astronauti sono costretti a pilotarla scoprendo man mano quale gesto da studente corrisponde a un comando dell’astronave. Dovevano lavare i piatti per pulire gli ingranaggi, bere alcolici per oliarli, fare un caffè per far partire l’astronave. Era una sorta di epica della depressione, una metafora di come mi sentivo nei giorni difficili in cui ogni minuscolo gesto corrispondeva a una grande impresa. Quello stesso anno partecipai come volontario a un cortometraggio locale (“Crisi” di Marco Businaro e Cristian Tomassini) e conobbi  una persona che sarebbe presto diventata una mentore fondamentale: Irene Gissara, tuttora grande amica e collega, che aveva già un’esperienza importante di set. Lesse la sceneggiatura del lungo e si imputò che la mia era una follia senza senso. Mi suggerì di trasformarla in un cortometraggio e di girarlo con una troupe, seriamente, lasciando perdere l’idea di fare tutto da solo. Controvoglia, ma ammettendo la sensatezza di quello che mi stava dicendo, scrissi E-Lena, che a forza di rimaneggiamenti alla fine non c’entrava niente con Minia.

Sul set di crisi conobbi anche Uber Mancin, che sarebbe diventato il direttore della fotografia di E-Lena e di quasi tutti i miei cortometraggi. È tuttora la prima persona a cui penso quando preparo un progetto.

Quando E-Lena e quando è stato selezionato al Science+Fiction mi sono sentito felice come se avessi vinto un oscar.

Il 2012 è l’anno di “Gea”. Hai voglia di parlarcene?

Gea mi ha convinto a smettere di scrivere per 5 anni, ahimè. Probabilmente mi aspettavo troppo da me stesso. Sta di fatto che ho dedicato anima e corpo a preparare quel corto per più di un anno. È stata una bellissima avventura, nella quale i due attori protagonisti, Fiorenza Pieri e Davide Dolores, hanno abbracciato in pieno le ambizioni che avevo e hanno dato tantissimo. Girare tra i boschi della Val di Non è stata la combo perfetta tra la professionalità che avevo maturato negli ultimi anni e l’amore per il “guerrilla” che non si era mai affievolito.

Ho rimontato il film più volte perché continuavo a trovarci qualcosa che non mi convinceva. Ciononostante, l’originale rimane un prodotto che ho voluto fortemente e di cui vado fiero. Rivederlo molte volte mi ha insegnato tantissimo. Mi piaceva tutto di quel corto, la fotografia di Uber, l’interpretazione di Fiorenza e Davide, ma non il mio contributo, così da allora ho deciso che dovevo ritornare tra i banchi di scuola e re-imparare a scrivere, perché la scrittura di quel corto, improvvisamente, mi sembrava vuota. Così ho smesso di fare progetti per me, dedicandomi più ad aiutare colleghi e amici.

Nel 2013 ti occupi di un altro mockumentary, “Goldfish short memories”. Sembra che tu sia un grande appassionato di questo genere!

Qui apri un vaso di Pandora, ma rimarremo concisi. Nel 2014 scrivo un lungometraggio chiamato “Memorie da Pesci Rossi”, una lettera d’amore agli anni dell’università con dei pesci mutanti festaioli. Quello stesso anno mi laureo e poco dopo vado a New York, per fare uno stage alla Troma. Traduco la sceneggiatura in inglese e cerco finanziamenti. Nel frattempo ho conosciuto un po’ di addetti ai lavori e conosco un paio di attori che sarebbero perfetti per interpretare due personaggi fondamentali del film. L’idea gli piace un sacco ma conveniamo che il modo migliore di procedere è girare un teaser, per dare l’idea di come verrebbe il prodotto finale. In realtà anche il teaser sarebbe stato troppo costoso da realizzare, così scrivo un mockumentary: immaginando il backstage delle avventure del film. Così – non mi sembra vero – riesco a organizzare un cortometraggio no-budget a New York. Il papà dell’aiuto-regia noleggia un furgone a suo nome perché è l’unico con una carta di credito, uno degli attori ci presta una casa di famiglia a 3 ore da New York, andiamo lì con una truccatrice che ci aiuta anche con la scenografia, l’aiuto regia mi fa anche da fonico. Il prodotto finale è bellissimo e nessuno potrà mai convincermi del contrario.

5 anni dopo arriva il corto “Narcisei o ci fai” (in concorso al III Indian Film Festival). Come andò in quell’occasione?

Narcisei o ci fai è stato il primo lavoro dove ho iniziato a trovare un mio “metodo”. Come ho già raccontato, venivo dall’esperienza di Gea che mi aveva convinto a smettere di scrivere fin tanto che non avessi trovato un modo diverso di farlo che potesse funzionare meglio. Con Narcisei, prima di tutto,ho trovato un nuovo punto di partenza per farmi venire le idee. Se fino ad allora utilizzavo un generico brain storming immaginando combinazioni di situazioni, personaggi e conflitti che avessero un buon equilibrio tra originalità e coerenza, con Narcisei decisi di scrivere partendo dal mio stato d’animo e di declinarlo in una storia che non dovevano avere nulla a che fare con la bellezza. Non cercai la “buona idea” e non pensai al pubblico. Avevo solo bisogno di mettere nero su bianco come mi sentivo, senza nemmeno l’idea di farci un film. Dopo cinque anni senza scrivere, non avevo particolare interesse a ricominciare forzatamente.
La sensazione che ricordo più vividamente mentre scrivevo era la vergogna. Stavo scrivendo sotto forma di storia una pagina di diario e mi spaventava l’idea che qualcuno potesse un giorno leggere quelle parole scoprendo parti così intime di me. Quando però rilessi quella stesura, accadde una cosa che non mi sarei mai aspettato: mi fece ridere. Mi accorsi che avevo scritto una commedia, anche se nel farlo ero sprofondato nella vergogna e nella paura. Onestamente, non mi ero mai cimentato nello scrivere qualcosa che facesse ridere; non pensavo di esserne capace. Avevo fatto “Il Ballerino” è vero, e avevo realizzato tanti video divertenti con gli amici, ma si trattava di esperienze durante le quali non avevo riscontrato in me nessuna particolare vocazione.

Con Narcisei o ci fai, ho intuito che se mi approccio alla scrittura con onestà brutale e scriteriata, in qualche modo poi quello che scrivo è divertente.
Ora, magari uno poteva anche sentirsi offeso da sé stesso in un frangente del genere, però ecco, io mi sentii sollevato, non tanto perché ridevo di me stesso, piuttosto perché improvvisamente, a stesura compiuta, la vergogna era sparita.
Da allora decisi di approcciarmi alle prime stesure sempre in questo modo e, solo successivamente, mettere in pratica la parte per così dire professionale, tecnica, di labor limae. È la tecnica che uso tuttora e che, piano piano, cerco di affinare sempre di più.

11) Nel 2019 sei il regista del geniale “Stipsi dixit”, uno dei tuoi corti più apprezzati dal pubblico. Raccontaci tutto!

Mi fa sorridere che Stipsi sia, innegabilmente, il mio miglior lavoro, perché si tratta del lavoro che più di tutti è stato per me “sperimentale”. Avevo appena finito di montare Narcisei o ci fai e avevo la smania di mettere nuovamente in pratica la tecnica dell’onestà scriteriata di cui ho appena parlato. C’era un aspetto secondario ma interessantissimo, che derivava da quella tecnica, che volevo assolutamente approfondire: dalla mia brutale onestà venivano fuori principalmente dialoghi e i dialoghi, in un film, sono solitamente la parte che costa meno realizzare. Mi sembrava di aver hackerato me stesso e di aver trovato un modo che mi permetteva di fare ciò che amavo senza agognare chissà quale budget. Stipsi è stata una sorta di sfida che mi sono dato, di scrivere qualcosa dove non mi servisse niente – ma proprio niente di niente – se non il mio garage e un paio di amici attori disposti a cimentarsi con la recitazione.
Adesso lo sai, il modo in cui trovo le idee è chiedermi come mi sento e crearci dei personaggi intorno. Più mi vergogno di quello che scrivo, meglio è. Così Stipsi non è altro che il dialogo interiore che inscenavo costantemente tra me e me in quel periodo. Sentivo di “desiderare qualcosa” che nei momenti intellettuali aveva forme altisonanti e nei momenti più schietti era solo bisogno di figa (scusate l’onestà). Così scaraventai in un unico calderone tutto quanto. Nel corto Dio interpreta la mia parte adulta, nei momenti in cui riesco ad avere chiare le situazioni, il  protagonista invece è la mia parte bambina, offesa perché non ha avuto l’universo, che si nasconde dietro inutili supercazzole, che non sa cosa vuole ma lo vuole a tutti costi. Inutile dire che le mie amiche psicologhe lo hanno adorato…

L’anno seguente eccoti ancora dietro la macchina da presa, con “La friendzone non è reato”. Di cosa parla questa opera?

L’idea di partenza era utilizzare lo stesso metodo di scrittura di Narcisei o ci fai per realizzare un poliziottesco. Volevo cercare di creare una ritmica in stile Di Leo, utilizzando solo i dialoghi. Inizialmente c’era un po’ l’idea di prendere spunto da Rashomon di Kurosawa, volendo raccontare un delitto da punti di vista discordanti. Poi, ahimé, la tematica della friendzone ha preso il sopravvento e senza che io possa dire di averne avuto il pieno controllo, la trama si è incrinata nuovamente su uno sfogo personale. Alla fine ho modificato tutto in montaggio, ritornando ironicamente su uno stile di montaggio ispirato a Rashomon. Anche qui, doveroso ringraziare e sottolineare la bravura degli attori protagonisti Alice Pagotto, Diego De Francesco e Marco Tizianel che sono riusciti a tirar fuori tutto ciò di cui avevo bisogno nonostante l’estrema complessità dei dialoghi.
L’esperienza di questo corto è stata importante anche perché mi ha permesso di collaborare attivamente con il mio carissimo amico e collega Marco Capurso con il quale, in concomitanza della pre-produzione del corto, abbiamo iniziato a scrivere un lungometraggio a quattro mani che ha richiesto 3 anni di incontri settimanali per essere ultimato. Il film si chiama Black Belt Othello e parla di un regista che trova i fondi per mettere in scena il suo colossal: una versione blaxploitation dell’Otello di Shakespeare. A differenza del protagonista del film, noi i fondi non li abbiamo ancora trovati.

Hai girato anche 2 corti a Los Angeles. Hai voglia di parlarcene un po’?

A Los Angeles sono andato per fare ricerca negli archivi del Sundance Institute alla UCLA. Visto che dovevo stare lì qualche mese per via del Dottorato, ho provato a inserirmi nel contesto indie di Los Angeles. Ho trovato un po’ di amici filmmakers e con loro ci siamo cimentati in qualche produzione. Ho girato questi due corti come regista, poi ho dato una mano in un po’ di altri lavori. A Los Angeles non so se tornerò, ho lasciato delle bellissime amicizie che mi mancano, ma chissà, ho tante cose da fare qua.

Intervista al regista Salvatore Frisina

Hai appena finito di girare un cortometraggio drammatico-sci-fi, “Una buona idea”. Ci puoi fare qualche anticipazione?

Eh sì, Una buona idea è una cosa strana che ho deciso di fare. È la prima volta che riesco a emanciparmi dalle tematiche schiettamente e specificatamente personali che ho affrontato nei corti precedenti. L’ho scritto nel 2018, poi è rimasto negli archivi, mentre lavoravo a Stipsi Dixit, a La Friendzone non è reato e a 2 sceneggiature che non ho mai finito, I know you know (uno dei corti di LA che non ho mai finito di montare) e La verità marcisce presto (una commedia zombie). Tutti questi erano parte di un unico progetto. A partire da Narcisei o ci fai, tutti i miei corti sono stati accomunati dalla tematica della cosiddetta “friendzone”, così avevo avuto l’idea di unirli in un unico lungometraggio a episodi chiamato “The Friendzone Chronicles”. Al momento ho una sorta di trilogia con Narcisei o ci fai, Stipsi Dixit e La friendzone non è reato.  Ma a causa, o per merito, di Una Buona Idea ho lasciato perdere.Quando scrissi la prima stesura di Una buona idea si trattava semplicemente del mio solito sfogo, nello stile che ormai conosci bene. In quel caso però mi sembrava produttivamente complicato, perché era ambientato su una ruota panoramica in movimento e il personaggio protagonista era un bambino di 6 anni. Così non ci pensai più di tanto e lo archiviai. Poi però, a volte capita, negli anni continuava a tornarmi in mente. Dopo la pandemia, quando amici e colleghi chiedevano a cosa stessi lavorando dicevo “A niente per ora”, poi però mi rendevo conto che avevo in mente Una buona idea, così ammettevo che c’era una storia sulla quale stavo rimuginando.
Credo che Una buona idea sarà un bel corto perché ho deciso di farlo solo quando era il momento di farlo. C’è da dire anche che questo fatidico momento è coinciso anche con l’intervento di un produttore che ha preso a cuore il progetto e ha risolto non pochi problemi organizzativi. Si tratta di un tipo strano, poco raccomandabile, che si aggira per Padova, magari lo conosci, un certo Massimo Bezzati.

Spesso, soprattutto in piccole parti, sei anche un attore. Come ti trovi in questi panni?

Recito sempre le parti che difficilmente un professionista ha voglia di interpretare senza un dignitoso compenso. La recitazione per me fa parte del mio volontariato nei confronti dell’indie, perché mi presto quando serve tappare un buco spigoloso. La parte più illustre che ho interpretato è stata “una scorreggia” in Return to Nuke’me’high vol. 2 di Lloyd Kaufman, per la quale non credo neanche di essere stato accreditato. Serviva simulare il fumo proveniente dall’ano di un attore e io, che ai tempi fumavo molto, mi proposi per sputare in scena il fumo da una sfilza di sigarette. In quell’occasione ebbi l’indimenticabile onore di nascondermi dietro l’immenso e venerabile Lloyd, fondatore della Troma, che recitava nella scena.
Altri miei ruoli di punta sono stati: uno zombie con il mal di denti, un sommozzatore in camicia hawaiana frutto di un’allucinazione da Peyote e un pappagallo logorroico.

So che ami molto il cinema horror. Quali sono i tuoi cult preferiti?

Sono arrivato all’horror tardi, iniziando ad apprezzarlo dopo i vent’anni, prima mi faceva davvero paura. Mi ha addolcito la pillola la scoperta dei B-Movie, la biografia di Roger Corman e il libro “Sparate al regista” di Steve Della Casa. Dopo aver passato un paio d’anni a immergermi alla scoperta di film incredibilmente trash, ho iniziato a comprendere il valore dei classici horror. Ne ho uno preferito sul quale non devo riflettere: Martyrs. Pensando ad altri horror ai quali sono molto legato, direi: Christine di Carpenter, Splatters di Peter Jackson, La Casa 2 di Raimi, Sette note in Nero di Fulci, La Maschera del Demonio di Bava e Cannibal Holocaust di Deodato. Poi lasciami citare quello che definirei la commedia horror che avrei voluto scrivere io: Tucker and Dale vs Evil! E infine, devo assolutamente menzionare un capolavoro sottovalutato che ci aveva visto lunghissimo sul talento di Nicolas Cage: Stress da Vampiro!

Progetti futuri in campo cinematografico oltre a “Una buona idea”?

Adesso sto lavorando a un progetto di cui sono drammaticamente troppo entusiasta. Non voglio spoilerare troppo, ma lo farò. Ho fondato una writing room per la scrittura collettiva di cortometraggi attraverso un gioco da tavolo. A Maggio faremo un evento, chiamato “Festival del Cinema Impossibile”, in cui proporrò dei reading scriteriati, coinvolgendo il pubblico attivamente, di sceneggiature accommunate da una sola caratteristica: saranno troppo folli, troppo costose, troppo complesse da realizzare. Così fuori di testa che, prometto, nessun produttore italiano avrebbe mai il coraggio di finanziarle!

Vuoi salutare in qualche modo i tuoi followers e i lettori di CineAvatar?

Guardate Stress da Vampiro!!!