Small is better! Ed è il caso di aggiungere: “A volte, è l’armatura a rendere GRANDE un supereroe”.
L’incursione di Peyton Reed nell’attuale panorama cinefumettistico è degna di nota. Nonostante il travaglio produttivo di un progetto che inizialmente vedeva coinvolto l’eclettico Edgar Wright, regista dell’iperbolica Trilogia del Cornetto, come guida artistica di riferimento per introdurre il personaggio di Ant-Man sul grande schermo.
Il processo di costruzione del secondo lungometraggio Marvel dell’anno ha sortito un risultato senza dubbio migliore rispetto ad Avengers: Age of Ultron, ‘reunion movie‘ dei supereroi più potenti del pianeta, presieduti da Mr. Joss Whedon, che ha mostrato il suo più grande limite nella velocità di risoluzione della storia e di un approccio troppo distaccato nei confronti dei protagonisti, compreso il villain Ultron, defraudato dal quel carisma fondamentale che aveva contraddistinto la figura del perfido Loki in Avengers.
Non sempre bisogna fare le cose in grande per essere eroi e il film di Peyton Reed fa delle misure ridotte il vero punto di forza. Tralasciando ogni tipo di doppio senso del caso, come in ogni film Marvel che si rispetti, non ci si può esimere dal mettere in campo gli effetti speciali più straordinari possibili ed ecco che il gioco delle dimensioni è fatto. Le trasformazioni favorite dalle particelle Pym sviluppate dal Dottor. Hank, rendono il più banale oggetto quotidiano, come ad esempio una vasca da bagno, un ostacolo insormontabile e pericoloso.
Estratto dai plot dei tradizionali caper movie (o heist movie, in italiano “film del colpo grosso”) con digressioni nel genere della commedia più pura e del fantasy, Ant-Man supera l’esame di prova finale: è un film che funziona anche grazie ad un ritmo scalzante e ad montaggio supersonico degno di essere accostato, in alcuni tratti, agli intramontabili spiegoni in flashforward di Guy Ritchie (evidenti in Sherlock Holmes). La sceneggiatura, calibrata con astuto equilibrio tra ironia ed emotività, deve la sua costruzione a Mr. Wright e Joe Cornish, i quali hanno lavorato sotto traccia per 8 lunghi anni e sono stati poi estromessi dal progetto (ma non dai crediti) a pochi giorni dall’inizio delle riprese a causa di divergenze creative. Coinvolto all’ultimo, l’ereditiero Reed è riuscito a dare un taglio in qualche modo affine allo stile del suo precedessore (anche se non sapremo mai come sarebbe stata la versione di Wright) portando alla luce un piccolo gioiellino del genere supereroistico e sovvertendo le male voci di coloro che non credevano in una soddisfacente riuscita del film.
La resa, dunque, è stata ottima: Ant-Man è un prodotto d’intrattenimento per certi aspetti in controtendenza con le logiche ‘buoniste e familiari’ della Disney che attraverso un linguaggio sottile ed affilato e a un parterre di interpreti eccellenti riesce a conquistare ogni genere di spettatore. Paul Rudd veste i panni di Scott Lang, un ladro esperto che viene reclutato dal Dr. Hank Pym, coadiuvato dalla figlia Hope Van Dyne, per proteggere il suo straordinario costume di Ant-Man, dotato della capacità di rimpicciolirsi e al contempo di aumentare la propria forza, dalla minaccia di Darren Cross, uno spietato scienziato d’affari che assumerà l’identità di Calabrone per rubare i segreti di Pym.
Il terreno della commedia è sicuramente un ambito fertile per il prode Rudd che si trova a ricoprire le sembianze di una ‘formica umana’ e un di eroe ‘per caso’ per riscattare il proprio passato e recuperare il rapporto con la piccola figlia. Entrerà all’interno di team stralunato di ladruncoli ‘fai da te’, capitanato da uno strepitoso Michael Peña, che rappresenta la vera chiave esilarante della pellicola in grado di innescare una serie di situazioni e di dialoghi esilaranti a ritmo di sketch e meccaniche splapstick.
Ma Ant-Man è anche un sorprendente mix di buoni sentimenti che non fanno mai male. Al centro c’è la famiglia e i rapporti tra padri e figli (o figlie in questo caso), quelli da riconquistare o quelli che hanno lasciato lacerazioni insolubili, ed attorno la redenzione di un uomo che, attraverso le buone azioni, cerca di salvare il mondo. Forse una storia vista e rivista ma che infarcita della “fascinazione” di casa Marvel fa sempre la sua figura. Una menzione speciale va inoltre all’interpretazione di Michael Douglas, vero leader carismatico dall’alto della sua sconfinata esperienza cinematografica, nei panni del saggio ed eccentrico Hank Pym. Il suo personaggioè l’artefice principale della storia, che sfrutta la tecnologia a disposizione per arrivare ad individuare la persona idonea a diventare il nuovo Ant-Man e ad istruirlo a dovere per acquisire la giusta dimestichezza con il costume. Hank sembra essere il contraltare opposto di Howard Stark, che snobba gli Avengers ma ha una visione ultra responsabile delle cose, fortificato da un carattere tosto, caparbio ed austero che è riuscito a trasmettere a sua figlia Hope (un’elegante Evangeline Lilly).
In definitiva le idee ci sono e sono anche brillanti. La prospettiva visiva del valoroso supereroe che sorvola la città sopra una formica alata è incredibilmente interessante, poiché riesce a mostrarci una realtà immaginaria, una sorta di regno quantico tra effetti tunnel e dimensioni alternative, dove i piccoli imenotteri dell’armata operaia assomigliano, a grandezza ‘naturale’, ai giganteschi insetti atomici portati in scena da Gordon Douglas in Assalto alla Terra (Them!, 1954). Riprendo lo stesso concetto processato da Jack Arnold nel film Radioni Bx: Distruzione Uomo, Reed ha puntato in modo deciso sulla carta vincente dell’umorismo più vivace, posizionandosi in una linea di intermezzo tra la trilogia di Iron Man e Guardiani della Galassia.
L’unica pecca del cinecomic, che ormai sembra essere l’ostacolo più difficile da superare, riguarda invece la caratterizzazione del cattivo. Corey Stoll interpreta il villain Calabrone, personaggio antagonista troppo viziato che agisce più per noia che per reale malvagità o sete di potere. Di conseguenza nell’intero arco filmico si appiattiscono le circostanze drammatiche e i frangenti di tensione, perdendo così il filo dell’inerzia dal resto della storia. Il percorso di introspezione rimane ancora una volta distante dalla sua ideale forma di attuazione, ma probabilmente è un fattore che alla Casa delle Idee non è considerato come priorità.
Un appunto: non andate via dopo i titoli di coda, le sorprese in casa Marvel non finiscono mai!
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