«L’eroina è una droga onesta, perché toglie di mezzo tutte le illusioni». Queste parole sono contenute nel libro Trainspotting di Irvine Welsh, adattato poi da John Hodge per l’omonimo film del 1996 del premio Oscar Danny Boyle.
La tossicodipendenza è una condizione drammatica e dolorosa, e Trainspotting è un prezioso testimone dello spaccato sociale e culturale giovanile della Gran Bretagna degli anni ’90 (“la Scozia si droga per difesa psichica”). Testimone ma non giudice, perché né condanna né assolve esplicitamente l’uso di droghe. Certo però fornisce allo spettatore tutti gli elementi per trarre le proprie conclusioni: le dirette conseguenze della tanto “onesta e sincera tossicodipendenza” che tedia i protagonisti sono criminalità, prigione, solitudine, depressione, malattia, morte.

Ma allora, se i fatti presentati sono dolorosi e le azioni compiute dai personaggi sono riprovevoli e ignobili, perché Trainspotting non è un film drammatico? Perché, una volta terminata la visione, lo spettatore non è triste? Questo effetto è dovuto, fondamentalmente, alla scelta della colonna musicale, che talvolta mette in risalto, talvolta attenua, determinate situazioni.

È proprio grazie alla musica che questo mondo di desolazione, solitudine e squallore non sembra poi così tanto misero agli occhi – o meglio, alle orecchie –  dello spettatore, e se la figura di un eroinomane rimanda a quella di un dead man walking, il ritmo del film è tutto meno che associabile allo zombie stomp: corre veloce, sfreccia e salta.

La scena iniziale e la scena finale sono infatti rese energiche dall’accompagnamento di una musica ritmata: nella scena d’apertura Mark e Spud corrono, in fuga, per le strade di Edimburgo al ritmo di Lust for life di Iggy Pop, cantante nominato molte volte durante il film («non puoi startene qui tutto il giorno a pensare all’eroina e a Ziggy Pop…»). Ma questo desiderio, sete, brama di vita, a cui fa riferimento il titolo della canzone, si pone in netto contrasto con le parole che pronuncia, a mo’ di slogan pubblicitario, Mark “Rent Boy” Renton, il personaggio principale, interpretato magnificamente da Ewan McGregor: «io ho scelto di non scegliere la vita. Ho scelto qualcos’altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando ha l’eroina?». Sono parole pesanti e tristi, alleggerite dal ritmo frenetico della canzone. E lo stesso vale per il brano di musica elettronica in chiusura, Born Slippy .NUXX degli Underworld, che cresce di intensità proprio nel momento culmine dell’azione, quando Renton prende la decisione finale, e che l’accompagna fino al disilluso monologo finale. 

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Provate a guardare questa scena con, per esempio, Mad World cantata da Gary Jules in sottofondo: tutto un altro effetto vero? Provate a guardare la scena del primo tentativo di disintossicazione – per cui, a detta di Renton, serve una “musica distensiva” –  ascoltando Eleanor Rigby dei Beatles: una sensazione molto più sgradevole e desolante rispetto a quella che si prova sentendo la Carmen giusto? Questo perché l’accostamento dell’opera lirica allo squallore e al disagio genera una combinazione squilibrata, e quindi grottesca, che nello spettatore “muove il riso pur senza rallegrare”, e questo effetto aumenta ancor di più quando l’opera lirica è accostata alla “peggiore toilet della Scozia”. Ma qui la Carmen si interrompe, e segue Deep Blue Day di Brian Eno, a mostrare come a causa dell’eroina si possa arrivare a toccare il fondo: letteralmente un “profondo blu”, come dice il titolo della canzone, rappresentato dalle acque immaginarie in cui Mark Renton si immerge.

Un effetto simile e bizzarro è prodotto anche dall’accostamento di Perfect Day di Lou Reed all’overdose: in una soggettiva incorniciata da un tappeto di moquette rossa, questo momento di tensione diventa quasi rilassante, e lo spettatore si perde e si confonde assieme al protagonista («Just a perfect day, you made me forget myself, I thought I was someone else, someone good…»).

A dimostrare ulteriormente che la musica può servire nei momenti di più profondo sconforto, basta pensare al trasferimento a Londra: l’appartamento è malconcio e maleodorante, e il testo di Mile End dei Pulp sembra scritto appositamente per descriverlo («it smelt as if someone had died, the living room was full of flies, the kitchen sink was blocked, the bathroom sink not there at all…»). Ma il suo motivetto allegro riesce ad avere un effetto sdrammatizzante, così da far pensare che, tutto sommato, quel buco nella parete non è poi tanto male.

La musica è dunque una delle colonne portanti di Trainspotting, e la scelta dei brani è stata davvero azzeccata, dall’inizio alla fine, titoli di coda inclusi. Questi sono dedicati, in un certo qual modo, a Simon “Sick Boy” Williamson, uno dei coprotagonisti del film, il grande fan di Sir Sean Connery nel ruolo di 007: il testo di Closet Romantic di Damon Albarn è infatti formato dai titoli dei film in cui Connery ha interpretato il famoso agente segreto.

Vi propongo ora un ultimo tentativo di sostituzione: al posto di tutta la musica presente in Trainspotting, di tutte le canzoni che ci sono, anche quella canticchiata da Spud («Io non voglio che tu pianga mai, sul mio baio c’è posto per due. Monta qui Tommy, non morir sai e andrò veloce anche in due. Noi da grandi faremo i soldati e i cavalli non saran più trastulli, e chi sa se ricorderemo quando si era due fanciulli»), immaginate il silenzio. 

Riuscite a farlo?
Che effetto fa?

ARTICOLO A CURA DI VIOLA NICCOLI