
Il cinema di Terrence Malick o si ama o si odia. Voyage of Time è il classico film che non fa nulla per distaccarsi dal percorso fideista e artistico inaugurato dal regista con The Tree of Life. Pensato come un documentario da mostrare nelle sale IMAX, il lungometraggio è invece un’espressione fortemente autentica e sentita della filosofia di Malick. Forse il culmine di un viaggio culturale durato 20 anni, o per lo meno la chiusura di un discorso cosmogonico sostenuto dall’autore. L’opera mostra infatti le origini del pianeta e l’evoluzione delle specie animali che lo abitano. La voce fuori campo di Cate Blanchett commenta le inquadrature evocative e bellissime, ponendo interrogativi che costituiscono l’essenza dell’essere persona.
Voyage of Time va vissuto come esperienza estatica, inno assoluto alla vita e alla meravigliosa complessità della creazione. La filosofia del cineasta appare, in un primo momento, semplice e banale. Chi siamo? Da dove veniamo? Chi ci ha creati? Sono domande fondamentali, alla base della ricerca umana, che sicuramente non ha inventato Malick. Quello che è però sconvolgente è la capacità di suggerire risposte, inserendo contemporaneamente altre questioni, tramite l’accostamento di fotogrammi e suoni.
Prese singolarmente infatti le immagini di Voyage of Time non sarebbero altro che sfondi per PC di grande effetto ma con uno sguardo più acuto andrebbero indagate in profondità nel loro contenuto e nella loro composizione. Il sole, simboleggiante la forza creatrice, è quasi sempre presente quando viene mostrato il graduale cammino dell’uomo verso l’impadronirsi della terra che l’ha generato. Le sezioni auree, emblema di perfezione armonica sovrannaturale, si fanno segno di un mistero insoluto. Una volta compreso il loro significato, le sequenze vanno messe in rapporto con le successive, con le quali danzano in armonia e creano un significato ulteriore e più elevato.
