Claudio Cupellini torna alla regia con La terra dei figli.

Un ragazzo trasandato che caccia una preda ignara in una palude. Questa è l’immagine, quasi primitiva e ancestrale, che apre La terra dei figli, il nuovo lungometraggio di Claudio Cupellini (Un uomo tranquillo, Alaska) tratto da una graphic novel di GiPi, pseudonimo del fumettista Gian Alfonso Pacinotti.

L’incipit accompagna subito lo spettatore in un mondo grigio, quasi selvaggio, dove vige la legge del più forte. Un mondo segnato da un evento catastrofico per l’umanità (alcuni personaggi parlano di “Veleni” come di un’imprecisata sciagura), di cui poco viene spiegato perché l’importante è il presente. Un presente dove un padre cresce un figlio senza amore e affetto, perché in questo contesto sono un segno di debolezza e di pericolo di morte. Lo cresce addirittura senza un nome. Un adolescente che non conosce niente al di fuori del suo microcosmo, che non sa né leggere né scrivere perché nato in un mondo in cui tutto questo non è necessario, dove la morte aleggia su tutti i personaggi e si manifesta in una scena in particolare, molto suggestiva, che ha il sapore di un presagio. Tutto ciò spingerà il protagonista in un viaggio alla scoperta di sé, verso la conoscenza e il significato di un piccolo diario che il padre possedeva, ma di cui ovviamente non conosce il contenuto.

la terra dei figli

Tra inganni e menzogne di un’umanità sempre più ostile e spietata, c’è una piccola speranza: è Maria, un ragazza sua coetanea, ignara del mondo e della sua persona. I due sono gli unici giovani in un mondo di adulti, l’unica speranza per la rinascita della razza umana. Un dilemma che i due si pongono in una scena, interrogandosi anche sulla propria sconosciuta sessualità e su come e se sono in grado di “fare dei bambini”. Durante il viaggio, i novelli Adamo ed Eva scoprono se stessi, risvegliando sentimenti sopiti e mai esplorati. La sceneggiatura di Guido IuculanoFilippo Gravino e dello stesso Cupellini scorre come un percorso “a tappe”, didascalico ma efficace. Quello che funziona meglio è il cast, con il giovanissimo rapper e youtuber Leon De La Vallèe alla sua prima (positiva) esperienza cinematografica, accompagnato da Fabrizio Ferracane e Maurizio Donadoni, oltre a Paolo Pierobon nei panni del padre e Maria Roveran nel ruolo di Maria. Discorso a parte meritano Valeria Golino e Valerio Mastrandrea che interpretano due personaggi con poco screen time ma fondamentali per la narrazione, uno in apertura e l’altro in chiusura di film: la prima è “La strega”, che aprirà le porte del viaggio del protagonista non senza preoccupazioni e sentimenti materni. Il secondo è “Il boia”, un uomo apparentemente spietato e violento che si rivelerà ostaggio di sensi di colpa e di un capo sadico e senza scrupoli. Un portatore di verità nella rivelazione del contenuto del diario, in una sapiente scena tutta giocata tra carrellate e primi piani con il protagonista che precede la fine del viaggio di formazione de “Il Figlio” che diventa adulto.

la terra dei figli valeria golino
Valeria Golino “La strega”

Altro pregio del film è la fotografia di Gergely Pohàrnok che verte su toni cupi e spenti, sul grigio e i chiaroscuri che inquadrano perfettamente il mondo post-apocalittico e decadente in cui si svolge la storia, aiutato da una regia sempre molto solida fatta di campi larghi a valorizzare l’ambientazione sulle rive del Po.

Un film prezioso che restituisce un tipo di cinema non così comune in Italia, assente da troppo tempo, che merita di essere sostenuto, con i suoi pregi e i suoi difetti.

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