L’UFFICIALE E LA SPIA (J’accuse), la recensione del nuovo film di Roman Polanski

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J'Accuse
J'Accuse
J’Accuse, il nuovo film di Roman Polanski in concorso a Venezia 76
Francia, 13 gennaio 1898. Sul giornale socialista “L’Aurore” la firma autorevole di Émile Zola grida con parole urlate sotto forma di inchiostro una frase semplice, perentoria, destinata a rimanere impressa sulle pagine di storia: J’Accuse. Dietro a quell’editoriale si nasconde una denuncia scomoda, pronta a scalfire un’istituzione ligia e seria come quella militare, rea di essersi macchiata di irregolarità e illegalità nel corso del processo contro Alfred Dreyfus.
Ora quell’editoriale è diventato materiale scottante, un contenitore di input creativi a cui attingere e con cui portare sullo schermo il nuovo film di Roman Polanski dal titolo per l’appunto J’Accuse (in italiano L’ufficiale e la spia).
Proprio come l’autore di Nanà, Polanski impronta la sua nuova opera come un trattato indagatorio atto a denunciare, senza retorica e avvalendosi della pura e semplice verità di matrice storica, i nemici “della verità e della giustizia”.
Seguendo le indagini del neo responsabile dei servizi segreti francesi Georges Picquart (un eccellente Jean Dujardin) il regista dà il via a una ricerca della verità senza per questo sconfinare nel campo delle cacce alle streghe. Confronti epistolari, flashback richiamati dall’avvicinamento di camera verso un oggetto o un dettaglio dalla portata mnemonica, colloqui e rivelazioni ammantate di menzogne sono tutti puzzle di quella mappa della verità che porterà all’assoluzione di Dreyfus. Una ricerca portata avanti da Polanski con maestria, eleganza e adombrata da una fotografia scura,e cinerea, proiezione visiva del tentativo di insabbiamento del caso da parte dell’intelligence francese.

J'Accuse

Ogni passo avanti nel corso della storia è un macigno pronto a colpire in pieno volto Piquart, incapace di comprendere la portata delle sue scoperte e schiacciato da un potere più forte del suo che lo schiaccia, lo lascia senza fiato e senza controllo, come ben mostrato dall’impiego emozionale e metaforico del grandangolo.
Ritratto storico dipinto con i colori dell’ingiustizia che ancora manovra, come un sadico burattinaio, il nostro quieto vivere, J’Accuse si tramuta in un’opera ontologica non solo da guardare, ma da comprendere, approfondire. Le scene in tribunali si tramutano in opere teatrali e i personaggi in attori pronti a convincere i propri spettatori della loro autorevolezza e capacità interpretativa.
J’Accuse si alimenta dunque della stessa sostanza che l’ha generata: uno spazio claustrofobico, chiuso, di uomini che si ergono a detentori della verità e pronti a tutto, anche a mentire davanti al fatto compiuto, pur di mantenere integre le proprie reputazioni. Ma come ben mostrato da Polanski, basta anche una ripresa dal basso, o un’inquadratura angolata, perché questo fragile castello venga detonato in mille pezzi. Un’operazione che solo poco registi sanno fare.
In questo gioco delle parti tra verità e accuse, si sente la mancanza di quell’approfondimento caratteriale e psicologico del personaggio di Dreyfus che avrebbe donato al film quella visione maggiormente introspettiva, ed emotivamente straziante nei confronti dello scandalo che lo ha travolto, lasciando così gli spettatori ancor più a bocca aperta, ancor più increduli.