Di cosa parla il film?

Rachel (Natasha Lyonne), figlia “adottiva”, vive nell’appartamento newyorkese dell’anziano papà del quale si prende cura.
I giorni per l’uomo – affetto da una malattia terminale – scorrono veloci e la ragazza, certa che la fine per l’uomo sia imminente, chiama al suo capezzale le due sorelle con le quali non si vede, né si frequenta da tempo. Insieme vivranno gli ultimi giorni del padre rendendosi conto di quanto l’attesa possa essere snervante.

Il tempo e i caratteri differenti hanno allontanato però le tre sorelle. Le giornate si susseguono tutte uguali tra diverbi, liti, confronti, urla, schiamazzi, pianti, frustrazioni e purtoppo poche gioie.

Katie (Carrie Coon), la sorella maggiore, con estenuante fatica, si occupa di scrivere la lettera di addio al padre che verrà letta alla sua commemorazione, un compito non facile. Ma solo quando lei, Rachel e Christina (Elisabeth Olsen) si ritroveranno – dopo interminabili chiarimenti – la lettera potrà essere compiuta e assumere tutto il valore evocativo che rappresenta.

Un immagine del film – Seattle Refined

Morte e Settima arte

Presentato in anteprima al Toronto International Film Festival, His Three Daughters è stato distribuito successivamente in alcuni cinema degli Stati Uniti per poi debuttare su Netflix. Il perno centrale del film è quello della morte, tematica che, fin da quando il cinema ha memoria, è da sempre stata una delle più trattate.

Il regista Azazel Jacobs si nutre proprio della “magia” della settima arte per raffigurare il concetto di morte trasfigurandone il significato, rappresentandola in modo del tutto personale. Più che porre l’attenzione sulla morte stessa e fine a se stessa, mostra come questa venga vissuta, in modo diverso e soggettivo, dalle His Three Daughters chiamate ad affrontare questo dramma proprio attraverso le loro differenze caratteriali.

Il lungometraggio suggerisce come la morte non sia in realtà la fine di tutto ma qualcosa di ben più grande: la nascita di un nuovo inizio, cominciando proprio dal ritrovato rapporto tra le donne.

His Three Daughters – Rolling Stone

C’è una scena cult?

His Three Daugthers non è il primo film che parla così esplicitamente di malattia (si veda a tal proposito il recentissimo La stanza accanto per citarne uno su moltissimi). Tuttavia se si pensa a una scena cult, rappresentazioni come queste fanno inevitabilmente saltare all’attenzione tutto quel genere di trasposizioni dove l’ossatura, con la sua sceneggiatura e la scenografia, si sviluppa tutta in uno stesso luogo, per restarci permanentemente.

Film come Room, se pur con tematiche ancestrali e differenti, con buona parte del narrato circoscritto in un’unica stanza con una sola “finestra sul mondo”, al pari della panchina “fonte di ossigeno di Rachel”, fanno emergere come il senso di claustrofobia, entro certi limiti perimetrali, sia asfissiante e predisponga perciò alla fuga fisica o morale.

Anche qui la vicenda si espande in un solo ambiente circoscritto, fatta eccezione per le brevi fughe di Rachel alla panchina all’aperto, bramosa di fumo e ossigeno. I dialoghi incessanti e tesi paiono evidenziare la claustrofobia dell’ambiente chiuso e confinato. Dialoghi stantii, volti a chiarimenti quasi mai possibili o non necessari sempre con l’orecchio teso alla camera accanto dell’anziano, a cercare di percepire anche il minimo cambiamento. Una stanza nella stanza.

Tutto difatti della casa viene svelato fuorché quel locale, dove appunto la malattia si consuma. Lo si immagina, lo si percepisce attraverso le espressioni concitate delle donne e per mezzo delle fugaci inquadrature alla porta socchiusa, finché non viene rivelato senza filtri, proprio quando la fine si sta compiendo.

Christina (Elisabeth Olsen) in una scena del film

Perché vederlo?

Palesemente per due ragioni. La prima per il parrallelismo che va a crearsi, tra le Three Daughters chiuse nell’appartamento del padre dal quale non possono fuggire. Si ritrovano a vivere una sorta di convivenza forzata, faccia a faccia con le loro spigolosità, cercando, per quanto possibile, di smussarne gli angoli, per loro stesse ma principalmente per il bene e l’amore nei confronti del padre morente.

Rachel è l’unica sorella, tra l’altro non consanguinea, a vivere con l’anziano genitore. Conduce una vita sregolata in un mondo tutto suo cercando conforto nei sedativi fumi della cannabis.

Anche Christina come Rachel vive in una dimensione parallela. E’ la sorella “zen”: neomamma, il centro del suo piccolo mondo è la figlioletta che non tarda a includere in ogni suo discorso.

Katie è la sorella ruvida, pragmatica e asciutta. Vive in conflitto con la figlia adolescente scaricando le frustrazioni di questo rapporto malsano sulle incolpevoli persone che ha accanto.

Proprio attraverso queste diversità si andrà a creare il fil rouge che unirà paradossalmente le tre donne, così vicine ma così distanti. Un filo sottile volto ad accentuare le diversità facendo riflettere sulle personali reazioni “causa-effetto”. Un flebile legame che esorta a meditare quanto la morte sia una questione intima e privata capace di porre l’attenzione sul senso di solidarietà in grado di abbattere qualsiasi barriera.

Infine la seconda ragione, non meno rilevante, è il finale psichedelico, distopico e quasi allucinatorio che per un attimo non consente di comprendere. Passato e presente si intrecciano confondendo i confini tra immaginazione e realtà. Tutto torna al punto “zero”: la fine (annunciata) non è forse un nuovo inizio?