Deepwater - Photo: courtesy of Medusa Film
Il poster italiano di Deepwater – Inferno sull’Oceano
Sarebbe poco logico approcciarsi ad un film come Deepwater Horizon sperando di trovarsi di fronte a riflessioni morali sullo sfruttamento delle risorse naturali, sui rischi che migliaia di operai affrontano quotidianamente sul posto di lavoro o su come le istituzioni debbano tutelare il più possibile l’ambiente dai danni causati dall’incuria delle grandi multinazionali.
Il lungometraggio è incentrato su una storia vera: si parla della piattaforma di perforazione oceanica, di proprietà della Transocean che, nel 2010, causò un’enorme fuoriuscita di combustibile in mare. Il disastro fu enorme, molti lavoratori persero la vita e il danno all’ecosistema marino fu irreparabile.
Peter Berg ha attinto a piene mani dalla tragedia per imbastire un’opera dal sapore classico. Gli eroismi, come nei classici action, mettono in ombra le debolezze umane: la forza del gruppo diviene tale se affidata al “singolo giusto”, la bandiera americana svetta di fronte alle fiamme (devo dargliene atto, meno volte del previsto) come simbolo di rinascita e di resilienza mentre le donne stanno a casa, angosciate, a pregare per la sorte dei mariti. Niente di originale e significativo rispetto al passato. Eppure Deepwater Horizon merita. Merita eccome! Perché tolto ogni vezzo d’essai (e quindi ogni senso alla scelta di prendere una vicenda realmente accaduta come fonte ispirazione), la pellicola diventa un ottimo memorandum delle potenzialità del cinema.
L’azione procede spedita, prendendosi tutto il tempo necessario per costruire il climax. La regia di Berg è tradizionale, figlia degli anni ’90, dei sommergibili in avaria e degli asteroidi in rotta di collisione, e al tempo stesso risulta chiara, concisa ed efficace. Deepwater Horizon riesce ottimamente a regalare ciò che aveva promesso: un intrattenimento mozzafiato che prende vita in un film da gustare senza impegno e capace di emozionare (non tanto, giusto il necessario).
Deepwater - Photo: courtesy of Medusa Film
Deepwater – Photo: courtesy of Medusa Film
Gli effetti visivi sono utilizzati con parsimonia, almeno fino all’esagerato finale (che è da considerarsi quasi una convenzione del genere), e non intaccano la fruizione. Anzi, è sorprendente il livello di realismo che la produzione è stata in grado di ottenere. I green screen, le fiamme finte, sono quasi indistinguibili rispetto al set. Le esplosioni sembrano collocate veramente a pochi centimetri dagli attori. Spesso, nelle grandi produzioni contemporanee, i disastri colossali vengono ripresi con un occhio filmico “pulito”, in cui si fatica a percepire il sudore, la terra, la polvere. Parte del problema è il rating di censura Pg 13, che costringe molti filmmaker a moderare alcuni elementi delle proprie scene. Peter Berg mantiene lo stesso divieto (incredibile come ci sia riuscito) ma fa la scelta coraggiosissima di restare attaccato ai suoi personaggi, cospargerli di liquami e mostrare il dolore e le ferite. Le immagini non sono cruente ma sensibili. Il sangue non scorre a fiumi ma si avverte con forza, così come l’angoscia, la confusione, il caos.
Il dramma della piattaforma Deepwater non ha forse intravisto nell’ultima fatica di Berg una trasposizione ideale e perfetta, riguardosa dell’entità della tragedia e attenta nel rendere giustizia, e onore, alle vittime e ai famigliari, risvegliando la coscienza civica del pubblico. Per quello bisognerà aspettare un altro regista e un altro film. Deepwater Horizon in quanto film d’azione, blockbuster contemporaneo, funziona benissimo, e regge brillantemente per tutta la sua durata. Era da tempo che un’opera catastrofica faticava a donare più di qualche emozione e qui succede, grazie e soprattutto ad una sceneggiatura solida, un cast azzeccato e una regia sapiente e decisa.
Consigliato a: gli amanti dei disaster-movie anni ‘90

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