CREED, all’ombra del mito di Rocky: la recensione

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Photo: courtesy of Warner Bros.
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Philadelphia, il Museum of Art, l’iconica scalinata. Un luogo suggestivo dal quale è possibile ammirare l’intera città e perdersi nel magnifico skyline per riassaporare i ricordi di una vita. Ed proprio questo che Rocky Balboa amava fare, osservare dall’altare di quel monumento il mondo circostante con un senso di liberazione fisica e mentale che solo gli uomini veri, dall’animo puro, sono in grado di provare.
La settima arte ha da sempre contribuito a creare icone immortali e miti intramontabili che ancora oggi vengono idolatrati. Tra sacralità e liturgia, il ventennio ’70-‘80 ha rappresentato un punto di riferimento per milioni di spettatori: Hollywood era il tempio delle grandi stelle, la culla di attori memorabili che ebbero la fortuna di legare la propria immagine a personaggi leggendari, destinati a segnare i costumi contemporanei e ad entrare di diritto nella storia. Indiana Jones, Mad Max, Terminator, John McClane di Die Hard, Rambo e Rocky, solo per citarne alcuni, hanno influenzato a loro modo un’epoca, portando i loro interpreti a conquistare una fama straordinaria a livello planetario. Considerata la fase di stallo e di crisi ideativa che il cinema attraversa oggi, a distanza di 30 anni, le case di produzione hanno capito che la via migliore da percorrere è il rispolvero di modelli infallibili, di figure iconiche che ritornano in scena per guidare le giovani leve al successo, nell’ottica di coniugare intere generazioni di pubblico, dai più nostalgici ai neofiti di ultima data. Un’operazione vista recentemente in Star Wars: Il Risveglio della Forza e ora riproposta in Creed – Nato per Combattere, primo spin-off della saga di Rocky, che ricalca le linee narrative e la cifra stilistica delle opere precedenti nel tentativo di preservare una certa identità. Purtroppo a differenza di quanto espresso da J.J. Abrams nella sua creazione caleidoscopica, il film di Ryan Coogler non riesce pienamente nel suo intento poiché guarda a Rocky con inclinazione imitativa senza mai cercare un guizzo innovativo ed originale.
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Photo: courtesy of Warner Bros.
Creed è un film che vive nell’ombra di un eroe moderno come lo Stallone Italiano, nella gloria di un passato che riaffiora e diventa il fulcro essenziale di un presente nel quale retorica enfatica e carica evocativa tingono irrimediabilmente uno script lontano dallo spirito brillante del monumentale cult di John G. Avildsen. L’ambientazione, i valori, l’impatto sentimentale e l’epica situazionale che definivano un lungometraggio dal forte impatto estetico e crepuscolare, valorizzato da una fotografia ruvida e seducente e da riprese dinamiche esaltate dall’uso della steadycam, non trovano in Creed quella chiave di coinvolgimento necessaria per donare al racconto una nuova linfa e vivere di luce autentica, cercando di tenere testa ai suoi predecessori.
Sylverster Stallone è il vero leader carismatico di Creed, il personaggio attorno a cui ruotano e dipendono inesorabilmente tutti gli altri. Il suo pragmatismo e l’esperienza drammaturgica (in una prova da Oscar) rappresentano l’ago della bilancia di un film che deve tutto al suo creatore: è evidente quanto il legame tra l’attore americano e il suo alter-ego più simbolico sia viscerale e quanto l’emblema di Rocky abbia il potere di oscurare il resto del cast. Michael B. Jordan veste i panni di Adonis Creed, figlio dell’eterno rivale ed amico Apollo, che si rifugia nello sport per combattere i demoni del suo passato e diventare un campione della boxe. Un sogno che si trasforma in un’esigenza istintiva, una priorità, una prerogativa esistenziale per completare le tappe di un riscatto personale e dare una svolta al proprio futuro. Tra fatica, sacrificio e perseveranza, il giovane pugile si rivolge a Balboa per chiedergli lezioni private e ricevere preziosi consigli sul mestiere. Complice un rapporto di rispettosa amicizia con Apollo, Rocky prende “Donnie” sotto la sua egida e lo allena poiché vede nel ragazzo un grande talento e voglia di applicarsi.
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Photo: courtesy of Warner Bros.
Per quanto ci siano tutti i presupposti per assistere a un blockbuster derivato da una saga unica nel suo genere, la pellicola di Coogler segue le orme del mito di Rocky, in un circolo virtuoso di convenzioni, stereotipi e citazioni che risulta ridondante e prolisso ai fini della storia. Esulando ogni tipo di trasporto e coinvolgimento dettato dai richiami musicali o dalle location di riferimento, la sensazione di fondo è quella di non riuscire a percepire l’intraprendenza del regista e la sua volontà di osare, di andare oltre, di superare schemi preconfezionati per esplorare la poetica concettuale (e visiva) e offrire inedite soluzioni esegetiche.
Andrea Rurali
Recensione anche su MaSeDomani.com

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