Hanno qualcosa di elegante, maestoso e aristocratico i gatti. Si muovono silenti, imprevedibili, fanno le fusa, graffiano ma si fanno subito perdonare con quei loro grandi occhi dai mille colori. A loro manca solo la parola; ed ecco che ben presto giunge sul palcoscenico di Broadway un musical come Cats, dove gli attori, nei panni di gatti dalle più disparate personalità, non soltanto prestano loro la propria voce, ma il loro dolce canto. Un successo imperituro, quello firmato da Andrew Lloyd Webber, divenuto ora film.
Non era un progetto di certo facile trasporre sul grande schermo un’opera come Cats. Tra il fotorealismo alla Re Leone, con l’impiego di gatti che cantano doppiati da grandi attori, all’uso di attori vestiti con pellicce e rimandanti metonimicamente ai felini protagonisti, Tom Hopper opta per una via di mezzo, sbagliando completamente. L’idea di uno spettacolo folle e visionaria lascia ben presto spazio a una CGI predominante, che mescola il volto umano dell’interprete al corpo del gatto da lui portato sullo schermo. Ciò che ne deriva è un abbraccio mefistofelico, una mescolanza di genere che stride e desta lo spettatore dal sogno della sala cinematografica. Tutto sa di finto e la spettacolarità di un’opera come quella di Andrew Lloyd Webber viene presa e schiacciata dal peso di una digitalizzazione che al posto di esaltare ogni singolo dettaglio, o tangibile emozione, porta in scena dei mostri sotto forma di gatti umanizzati.
È un sogno di rinascita, quello che scorre tra le note di Cats; sogno che, una volta filtrata dalla cinepresa di Hooper, finisce per essere un incubo da cui lo spettatore non vede loro di svegliarsi. Aiutati dalla magia del cinema, potremmo anche dare la voce ai gatti, ma i nostri corpi, le nostre movenze, i nostri vestiti, la nostra mimica facciale, quelli no; con il film di Hooper si è superato un confine dove la poesia, figlia legittima di quella pubblicata da T.S. Eliot nel 1939 (e da cui lo stesso musical prende le mosse) lascia spazio alla macabra sovraesposizione di un mondo alienante, impossibile da credere verosimile, anche tra gli spazi di un universo fiabesco. Il divertissement si tramuta in una giostra dell’anti-estetica. La bellezza latente e tenuta in potenza, si sfalda dinnanzi all’abuso smisurato della tecnologia. L’illusione di realtà cade immediatamente dalle prime inquadrature. Gli uomini trasformati in gatti (o gatti antropomorfizzati) espongono all’eccesso una ridicolaggine dell’immagine cinematografica che vanifica tutto l’impianto scenografico e registico dell’opera. La sospensione di realtà tipica del cinema, e i colori brillanti del musical, sono adesso birilli gettati a terra dalla potenza di una CGI che di realistico ha ben poco. Il volto umano, le movenze e i corpi che si aprono come cerniere per rivelare altri vestiti, altri peli, scuotono lo spettatore, accendendo in lui un senso di quasi ribrezzo. Hooper ripropone lo stesso canovaccio de I Miserabili apportandolo a un contesto altrettanto compatibile, perché erede di uno dei musical più rappresentati sui palcoscenici teatrali del mondo; eppure, se nella pellicola precedente l’uso pressoché univoco della musica e dei brani cantati ha permesso di esacerbare ogni singola lacrima, sorriso o cuori che battono e anime che si struggono, in Cats l’incantesimo si spezza. Ne I Miserabili Hooper poteva infatti affidare le emozioni tradotte in musica a esseri umani, dando il via alla facile immedesimazione spettatoriale; in Cats, il sogno di una vita migliore è decantato da esseri ibridi, dove l’immaginazione spettatoriale, chiamata a colmare – come avviene a teatro – le eventuali mancanze, trasformando così gli attori in gatti, viene ora soffocata, distrutta, perché sostituita da una tecnologia disturbante, sia esteticamente che emotivamente.

Per apprezzare appieno Cats, bisogna quindi chiudere semplicemente gli occhi e lasciarsi trasportare dalla potenza della sua musica. Un paradosso, questo, soprattutto se contestualizzato nell’ambito del musical; ma quello di Hooper per resa estetica, non è rientrabile all’interno di tale genere cinematografico, non ne è degno; esso si avvicina piuttosto al peggior b-movie mai realizzato, una sorta di copia apocrifa e non originale di quello che sarebbe potuto essere un ottimo prodotto dall’enorme potenziale. E così, le performance di attori del calibro di Judi Dench, Idris Elba, Rebel Wilson, Ian McKellan, e il talento registico e visionario di Tom Hooper sono ammassi accatastati di occasioni sprecate, dando vita ai nostri incubi più reconditi.