Si dice che il secondo film sia sempre il più difficile nel percorso artistico di un regista, specialmente per via delle alte aspettative da parte di critica e pubblico.
Nelle Favolacce dei gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, classe 1988, troviamo la conferma di essere di fronte a due giovani registi con la giusta prospettiva per innovare il Cinema italiano, portando la loro visione cinica e pessimistica all’interno di un panorama cinematografico fin troppo indulgente con le proprie storie e personaggi.

Se La Terra dell’Abbastanza era essenzialmente classificabile come un film di genere (basti pensare che ebbe una gestazione di circa cinque anni, poiché venne ritenuto fin troppo simile a un’altra pellicola uscita in sala proprio in quel periodo: Non Essere Cattivo del compianto Claudio Caligari), in Favolacce il registro è totalmente differente.
Reduci dalla vittoria dell’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura all’ultimo Festival Internazionale del Cinema di Berlino e costretti a una distribuzione in versione digitale causata dell’emergenza sanitaria che ci ha colpito, i D’Innocenzo ci presentano una loro versione della classica favola della buona notte, in cui però non troviamo nulla di rassicurante o fiabesco.

Il film si apre con la classica voce narrante fuori campo (un ottimo Max Tortora, già protagonista de La Terra dell’Abbastanza) che ci racconta del ritrovamento di un diario appartenuto a una ragazzina, le cui pagine finali s’interrompono però senza alcuna spiegazione di sorta.
Entreremo così nelle case di periferia di alcune famiglie di Spinaceto, zona urbanistica di Roma, dove andranno in scena le crisi di un’intera comunità a cui il nostro narratore, in mancanza di un vero capitolo di chiusura, affiderà una sua personale fine, ipotizzando la conclusione degli eventi che coinvolgono la giovane protagonista.

Favolacce
Le vicende di Favolacce hanno luogo a Spinaceto, zona urbanistica di Roma

Come abbiamo detto, le vicende si svolgono a Spinaceto ma, in realtà, potrebbe trattarsi di qualunque altro luogo; perché questo è un film che riguarda un po’ tutti noi e, in generale, tutta la frustrazione e le idiosincrasie di un’intera generazione (quella appunto dei due registi, cresciuti nell’Italia dell’ultimo ventennio).
Il mondo degli adulti e quello dei bambini, contrapposti con uno spessore notevole, in cui emergono l’incapacità di entrambi di comunicare o relazionarsi in qualche modo, dove i più piccoli sembrano essere destinati a ereditare la rabbia e il disagio dei genitori nei confronti di una vita che non lascia spazio ad alcun tipo di redenzione.

C’è una grande dose di cinismo e di provocazione nella macchina da presa dei due cineasti romani e sicuramente qualcuno potrà giustamente trovare somiglianze con il cinema di Michael Haneke o, perché no, di registi come Yorgos Lanthimos, per via del leggero surrealismo che permea l’intera pellicola, ma c’è un elemento fondamentale che fa la differenza: questa storia è profondamente radicata in un panorama territoriale a noi molto familiare.

Non si tratta una sceneggiatura adattabile in qualunque contesto o paese ma, al contrario, si aggrappa con forza alla nostra identità.
Il nichilismo sociale a cui assistiamo restituisce uno sguardo contemporaneo che rende la riflessione, al chiudersi dei titoli di coda, difficile da digerire – un vero pugno nello stomaco – ma che, allo stesso tempo, non manca d’impreziosire il contenuto proposto.

La chiave di lettura sta tutta nell’utilizzo dell’inflessione dialettale nel titolo.
Queste “Favolacce” ci appartengono. Sono marce e grottesche come la società in cui viviamo, fatta di ipocrisia e beceri istinti che, nonostante il nostro tentativo di nasconderli o negarli a noi stessi, finiscono con il prendere il sopravvento nel momento in cui ci troviamo tra simili… e non c’è nulla che possiamo fare.
Niente principesse o eroici cavalieri, nessuna finzione.
È uno schiaffo morale in piena regola che, tuttavia, serve a narrare un aspetto del nostro Paese che quasi nessuno ha il coraggio di mostrare e finalmente possiamo dire di aver cominciato a grattare la superficie delle nostre perversioni.

Favolacce
Elio Germano in Favolacce

Questi adulti (che sembrano orchi) sono personaggi animaleschi che convertono l’infanzia e l’ingenuità a essa correlata in un vortice di emulazione, causando una rapida perdita della fanciullezza e un confronto diretto con un aspetto della vita che può essere tremendamente duro e desolante.
Le grandi interpretazioni di Elio Germano, Ileana D’Ambra, Tommaso Di Cola e Barbara Chichiarelli (senza nulla togliere al resto del cast, formato da grandi e piccoli) regalano un brivido lungo la schiena e rendono i loro personaggi talmente tangibili da innescare nello spettatore una serie di reazioni a catena che portano al totale annullamento emotivo una volta calato il sipario (basterebbe la sola sequenza finale con lo stesso Germano a far serrare la mascella a chiunque) e che riecheggiano anche dopo la visione del film.

Nonostante quanto descritto finora, però, c’è una cosa molto importante da dire.
Molti hanno affermato che questo non sia un film per tutti, definendolo di difficile fruizione per un pubblico abituato a generi meno taglienti.
Noi ci sentiamo tuttavia di dissentire e consigliarlo a chiunque sia fruitore di un certo cinema nostrano, più leggero e scanzonato (la cui visione non è certamente criticata in questo articolo, tutt’altro) per sbirciare l’altra faccia della medaglia e riflettere sulla contemporaneità, nonché sull’evoluzione di una società a cui dobbiamo rendere conto delle nostre azioni e che, negli ultimi anni, non possiamo dire che sia stata sempre ben trasporta in campo cinematografico.

Un altro tipo di Cinema è possibile e, forse, è arrivato il momento di dare spazio a giovani registi che, con le loro idee, possano riportare il focus narrativo su aspetti che, per molto tempo, avevamo lasciato nascosti dentro un armadio, in attesa di essere finalmente riportati alla luce.