Tarantino Fiction: alla scoperta del cinema di Quentin Tarantino

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Quentin Tarantino
Quentin Tarantino
A film by Quentin Tarantino
Cinefilia, meta-cinematografia, new Hollywood, patchwork citazionista: basta davvero poco, anche solo un semplice termine, per includere in poche lettere lo stile di Quentin Tarantino. In un mondo in cui i registi vengono sempre più offuscati dal successo delle proprie opere, e il loro nome accantonato in file secondarie della nostra memoria, c’è chi come Tarantino è sinonimo del suo cinema. Il suo è un laboratorio filmico, una bottega in cui rintanarsi per costruire nuovi mondi presi in prestito e modellati su immagine e somiglianza di altri mondi cinematografici a lui precedenti. Figli nati da menti genitoriali diverse, i film di Quentin Tarantino vedono nel loro DNA un patrimonio genetico formato da tasselli mnemonici nati in seno a visioni bulimiche di centinaia di film di tutti e generi e tipi, perché nel mondo di Tarantino non esiste film di serie A o di serie B. Come dimostrato dal suo ultimo C’era una volta a… Hollywood (QUI la nostra recensione del film) l’universo dei B-movies, così tanto bistratti da Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) e di cui suo malgrado si ritrova a divenirne uno dei massimi protagonisti, vivono a fianco a fianco e si nutrono dello stesso ossigeno plasmante di quelli del cinema classico, simboleggiati da Sharon Tate (Margot Robbie).
Pronto a dar vita a nuovi universi scritti con la potenza della luce di proiezione, Tarantino scava nella propria mente; affonda le mani in quell’universo filmico che lo ha nutrito pellicola dopo pellicola e, come un operaio del cinema che entra in un negozio di bricolage, sceglie con cura gli strumenti da citare, per costruire la sua nuova macchina dei sogni lanciata su una strada lastricata di citazionismo e inventiva, destrutturata e poi ricostruita a proprio piacimento mostrando modelli, copie ed epigoni.
Ma quali sono gli elementi che con il tempo hanno reso riconoscile lo stile di Quentin Tarantino? Tra dettagli, movimenti di macchina, riprese e oggetti ricorrenti, la giostra tarantiniana consta di elementi imprescindibili al suo buon funzionamento. Scopriamoli insieme.

Quentin Tarantino

L’OSSESSIONE PER I PIEDI

I piedi sono forse quella parte del corpo che teniamo più nascosta. Stando a quanto riportato da vari sondaggi, è anche quella che tendiamo a odiare di più. Diversi per forma e costituzione, i piedi ci caratterizzano e rendono unici, proprio come unici sono i film di Quentin Tarantino. Corollario nervoso, basta toccare i giusti punti e si può controllare parti diverse del resto del corpo (la cosiddetta “riflessologia plantare”). E cosi la parte finale di noi stessi controlla interamente il nostro io interiore. Sporchi, immobili, pronti a danzare, i piedi in Tarantino si stagliano in primo piano, come uno sguardo che interpella lo spettatore in sala. Simboli in pars pro toto del personaggio e dei suoi sentimenti, ripresi nel loro mutismo i piedi parlano per il proprio personaggio, lo rappresentano dentro e fuori, lo comandano proprio come comandano dentro e fuori il nostro corpo.

Quentin Tarantino

LE SIGARETTE APPLE

Come il camioncino di Pizza Planet per i film Disney Pixar, così le sigarette Red Apple sono diventate un must nel cinema di Tarantino. Al regista di Knoxville non bastava riscrivere la storia con la forza del cinema, ma è riuscito a raggirare la nodosa questione del product placement sfruttando la propria fantasia creando marchi fittizi (i “fake brands”) che inserisce con regolarità in molte scene dei suoi film. Tra questi ci sono le sigarette Red Apple.
Le sigarette Red Apple fanno il loro esordio in Pulp Fiction sul tavolo di Zucchino e Coniglietta per poi ritornare spesso nel corso della pellicola. Il logo è stato creato da Jerry Martinez e Chris Cullen. Dal 1994 che sia un manifesto pubblicitario come in Jackie Brown o Kill Bill: volume 1, o un pacchetto che sbuca dalle tasche dei soldati nazisti di Bastardi senza gloria, la mela rossa fa capolino come marchio di fabbrica di sogni e fantasie in fotogrammi. Un tratto distintivo di una mente creativa fuori dal normale sotto forma di mela, che va a reduplicare quelle di altri menti eccelse come i Beatles e Steve Jobs.

L’USO DELLA MUSICA

Che il suo sia un uso anaempatico dai tratti kubrickiani (il balletto di Mr. Blonde sulle note di “Stuck in the middle with you” ne Le Iene ricorda quello portatore di morte, tortura e terrore di Alex DeLarge in Arancia Meccanica) o dalla portata esaltatrice del sentimento dominante in scena, la colonna sonora nei film di Tarantino gioca un ruolo di primaria importanza. Il suo impiego va ben oltre il semplice commento musicale; essa funge da sottolineatura emotiva ammiccando ai sentimenti degli spettatori ora impegnati a danzare balli sfrenati dell’emotività.

MONOLOGHI E CONVERSAZIONI

La tua deve essere una grande penna per tenere desta l’attenzione dello spettatore attraverso monologhi o conversazioni destinate a protrarsi per decine di minuti. Una realtà dei fatti, questa, sempre più ossidata in una società perennemente di corsa come la nostra, dove il limite massimo per recepire un messaggio si è abbassato a 15 secondi. Per sua fortuna Quentin Tarantino è un’ottima penna: acuto, intelligente, capace di trattare argomenti bassi, come le mance del McDonald’s, o i cheeseburger, donando loro un’aura sacrale e dottrinale da grandi oratori. Il tutto condito da black humor grazie con cui rendere divertente anche una scena intrisa di paura e di nefasti presagi (ogni riferimento al dialogo tra i Bastardi e Hans Landa alla première cinema è volutamente NON casuale). “Sintassi paradossale e grammatica dei contrasti”: ecco come potremmo definire il linguaggio utilizzato dagli abitanti della terra di Quentin Tarantino.
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SALTI TEMPORALI E STORIE-CORNICI

Guardare un film di Quentin Tarantino è come saltare sul tappeto elastico. Con agilità ti ritrovi da una parte all’altra dello spazio in cui sei rinchiuso. La non linearità delle sue sceneggiature porta l’intreccio a fare continui salti temporali o narrativi tra le varie parti di cui consta la sua opera strutturata come una grande scatola cinese. Dalla suddivisione in capitoli all’interno dei quali inserire continui sub-plot, fino al film dentro il film di C’era una volta a… Hollywood dove pellicole reali danzano abbracciate a quelle realizzate ex-novo dal regista (allo stesso modo in cui fatti storici vanno a braccetto con la sua rilettura fantastica) l’opera di Tarantino si frantuma in mille pezzi senza cadere nel parossismo. Tutto è perfettamente studiato e calibrato, ogni tessera va a prendere ordinatamente il suo posto in un puzzle che solo apparentemente sembra dominato dal caos.

SCIE DI SANGUE

Quentin Tarantino non ha mai nascosto la sua vena attrattiva per le scene di violenza. Il sangue può scorrere a fiumi oppure cadere in piccole gocce. La quantità che riveste la sua pellicola è perfettamente equilibrata al tipo di film che porta sullo schermo, o alle esigenze della singola scena. E così se i film degli inizi, più istintivi perché dettati dall’esuberanza giovanile, si bagnano tuffandosi in un lago di sangue (vedi i finali de Le Iene, o della corsa vendicatrice de La Sposa in Kill Bill) le ultime fatiche, più mature e riflessive, lasciano che sia la tensione ad avere la meglio, per poi sfociare nella follia animalesca sono nelle battute conclusive (C’era una volta a… Hollywood, Django Unchained e The hateful eight).

LA CINEFILIA E IL GIOCO DI CITAZIONI

Il cinema di Tarantino piace al pubblico perché lo spettatore medio tende istintivamente a identificarsi con chi quel cinema lo ha creato. Quello di Quentin Tarantino è un cinema fatto da un fan della settima arte per i fan della settima arte. È un gioco di specchi in cui un Frankenstein-cinefilo raccoglie pezzi da film del passato per dar vita alla propria creatura destinata a una platea di ulteriori cinefili. Un gioco di specchi in cui medesime passioni e ossessioni si rinfrangono suggellate in una rete di empatica condivisione. Citando frame o intere sequenze di opere ben impresse nella memoria collettiva, Tarantino ha saputo come far riaffiorare furbescamente ricordi e memorie del passato riportando il subconscio in superficie. Trattandosi di un’arte visiva noi tutti affidiamo a ogni scena un preciso ricordo legato a quel momento di visione. Richiamando quel dato momento, Tarantino richiama anche pezzi del nostro passato; le persone che avevamo a fianco quando vedevamo quel film, i luoghi della nostra infanzia o adolescenza, profumi che pensavamo essersi perduti negli antri oscuri della nostra mente. Sebbene si trattino di rimandi rimodellati su immagine e somiglianza del proprio estro artistico, grazie a questo gioco di ricerca citazionistica Tarantino rende partecipi i propri spettatori in un continuo gioco di destrutturazione filmica e di dissezione meta-cinematografica in cui tutti, dai personaggi, allo spettatore fino allo stesso regista, sono posti sullo stesso livello conoscitivo e di importanza.
Dopotutto fu lo stesso Tarantino ad affermare: I don’t think the audience is this dumb person lower than me. I am the audience”.