Beasts-of-No-Nation-1-Idris-Elba
“Ho fatto cose orribili. Ho fatto tutto questo ma ho avuto anche una madre, un padre, un fratello e una sorella… e loro mi amavano.”
Cary Fukunaga, talentuoso regista giunto all’attenzione del grande pubblico per aver diretto l’intera prima stagione della fortunata serie tv True Detective, debutta alla 72ma Mostra del Cinema di Venezia, supportato dal colosso dell’intrattenimento Netflix, con un’opera dura e intensa in grado di toccare la sensibilità dello spettatore in sala, immergendolo in un vero e proprio Inferno su Terra, nazioni e vite lacerate da un perenne stato di conflitto, nel quale si dissolve completamente il confine tra bene e male e i figli degli uomini vengono battezzati nel sangue dei loro padri.
Beasts of No Nation è un film di infanzie rubate e di ferite impossibili da rimarginare che sovrasta e soffoca come la giungla verde e lussurreggiante che ne circonda i piccoli protagonisti; un ritorno alla natura e alla sopravvivenza istintiva è, infatti, l’ovvia conseguenza all’eterno girare di una medaglia che si limita a evidenziare l’esaltazione di un processo di ordine/esecuzione che passa di generazione in generazione, di soldato in soldato, senza che un reale obiettivo di pace ed equilibrio riesca mai a concretizzarsi.
beasts-of-no-nation-netflix-original-film-teaser-trailer-6-copy-715x392
Non a caso, l’intera pellicola si basa sul rapporto tra due forti personalità, quella del giovane e tormentato Agu (l’emergente Abraham Attah) e quella del suo Comandante (il navigato Idris Elba, qui anche in veste di produttore), che suggerisce un ipotetico passaggio di testimone a portare avanti un’eredità bagnata dall’odio. Un circolo vizioso che, come un serpente che si mangia la coda, giustifica la violenza con la violenza e pone le azioni sempre e comunque davanti alle intenzioni.
I sentimenti che permeano l’opera di Fukunaga risultano estremamente tangibili ma, al tempo stesso, artefatti e frammentati a piccole dosi. A risentirne è lo stesso conflitto interiore di Agu, sul quale si concentra maggiormente il romanzo originale dello statunitense Uzodinma Iweala e che, dal profondo dolore per l’abbandono di uno stile di vita rievocato unicamente dal ricordo di un canto materno, vira eccessivamente sull’evolversi di un legame tra allievo e maestro.
Giulio Burini e Andrea Rurali

Rating_Cineavatar_3-5