Di cosa parla Una notte a New York?
Girlie (Dakota Johnson), giovane e affascinante donna, atterra all’Aeroporto JFK di New York in una notte qualsiasi. Viene accolta nel vissuto taxi dell’altrettanto vissuto Clark (Sean Penn) che per la ruvidità con la quale si presenta instilla un dubbio: tutto potrebbe essere oltreché tassista. Psicologo, figura poco raccomandabile?
Inizialmente divisi dal separé interno, tra i due nasce da subito un’intesa, un feeling che li porterà a conoscersi profondamente svelandosi verità mai dette.

Generazioni a confronto
Prendi una notte a New York: un’intricata tela di Avenue and Street con le sue grandi strade, gli incroci, le luci abbaglianti, il traffico e due perfetti sconosciuti che con buone probabilità non si rivedranno mai più. Un incidente che imbottiglia la viabilità, un tassista e una passeggera di generazioni diverse (un padre e una figlia?; amanti di epoche differenti?). Una fitta rete di sguardi, in primissimo piano, giocati su sequenze in continui tagli di prospettive “viso-occhi”, tra interlocutori che non si conoscono affatto e si comprendono appena prima di rivelarsi del tutto.
I piccoli spazi uniscono e incoraggiano una conversazione complice tra i due perfetti sconosciuti che ricorda a tratti il gioco “obbligo-verità” per il ritmo divertito con cui decolla e per le variabili “vero-falso” che propone. Intervalli spazio/tempo tra il tamburellare delle dita di lui e le unghie laccate di lei che enfatizzano un dialogo in codice “binario” fatto di tanti “veri” (il numero uno) ma anche di qualche falso (lo zero).
L’uomo maturo incalza e porta la sua esperienza di vita in aiuto (o disagio?) alla giovane passeggera. Oltre al separé del taxi, una generazione li divide: l’utilizzo differente della tecnologia (discutibile), il virtuale e il reale, la pragmaticità e l’idealismo, l’essere amati o l’essere ama-n-ti. Qual è lo 0 e quale l’1 in tutto questo?
Il piccolo abitacolo come vettore di verità scomode che non si aveva il coraggio di ammettere nemmeno a se stessi e poi di colpo svelate, complice il traffico e la tariffa JFK.
Sarebbe stata anche un’idea interessante se i soliti cliché, le cadute di stile, la retorica e alcune scene e frasi di dubbio gusto non avessero contaminato buona parte del film salvando il salvabile, ovvero solo il finale e l’interpretazione dei due empatici Dakota Johnson e Sean Penn connessi in perfetto linguaggio binario.

Papà o paparino?
Una Notte a New York ricorda per intensità, volume e portanza di dialogo, principalmente due film: il primo è Locke di Steven Knight. Un altro padre che tradisce figli e famiglia per trovarsi poi invischiato in una gravidanza extraconiugale. Il secondo è Non riattaccare di Manfredi Lucibello tutto sviluppato su una telefonata ininterrotta tra ex-fidanzati in epoca Covid. Qui, dialoghi a parte, il narrato ovviamente è completamente differente.
Ma a tratti fa pensare anche all’intensità nella parte finale di Mulholland Drive: lui (un sempre camaleontico Sean Penn) perso nella vastità del deserto sulla sua auto; il mondo fuori e dentro sé, un mondo a parte, introspettivo, proprio come Una notte a New York con la megalopoli sospesa a far da cornice fuori dal taxy.
All’interno lei, Girlie, sembra forte, decisa e sicura di sé; così la delinea Clark, tassista e aspirante psicologo dal nome sbagliato. In realtà, come tutti, ha i suoi scheletri nell’armadio. Cresciuta senza un padre che finché è stato presente non l’ha degnata né di abbracci, né di carezze, quel padre mancato – probabilmente – lo ricerca sotto altre forme.
Ed è allora che papà (Dad) si declina in papino (Daddio dal titolo originale: Daddy-or…), vezzeggiativo con il quale la giovane donna chiama il suo amante (un misterioso padre di famiglia).
Un “Daddy” e non un “Dad”, un papino e non un padre come sono soliti chiamarlo i piccoli figli dello sconosciuto ma anche quella “acquisita”, la figlia cresciuta.

Perché vederlo?
Se la domanda fosse posta al contrario molteplici sarebbero le motivazioni da sostenere per un film che non decolla ma rimane chiuso ermeticamente in quel taxy ancorato alle sole interpretazioni dei due attori protagonisti.
Quindi… perché vederlo?
Per il film interessante che sarebbe potuto diventare (se solo non fosse caduto in ovvietà; testimonianza dello spessore morale della civiltà odierna?) e per poter immaginare sviluppi senz’altro differenti.
In effetti ognuno ha il suo “0” e il suo “1” da condividere e le “caramelle” offerte (da Penn) purtroppo non bastano e non soddisfano uno spettatore esigente.
La fotografia dell’ipnotica New York aggiunge una nota di mistero alla messinscena.